Roma – Il senatore Paolo Guerrieri Paleotti, economista, è relatore a Palazzo Madama della proposta di regolamento per l’istituzione del Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), ma non è entusiasta del Piano Juncker. “Ha individuato la direzione dei contenuti che servono all’Europa”, sostiene, perché “la caduta degli investimenti, pubblici e privati, ha determinato la caduta della domanda interna e ha contribuito alla stagnazione economica che ha visto ben due fasi recessive”. Dunque, “il rilancio degli investimenti è la vera variabile chiave con cui misurarsi”.
Eunews: Senatore, se la direzione è giusta, perché molti sollevano dubbi sull’efficacia del Piano Juncker per la ripresa dell’economia?
Guerrieri: Dal punto di vista finanziario, il Piano Juncker si presenta interessante. Potrà contribuire in positivo anche a sbloccare alcune condizioni che oggi rendono difficile investire in Europa. Ma sul piano dell’impatto macroeconomico, sia sulla domanda che sull’offerta, le scarse risorse messe in campo – anzi direi le minime risorse, visto che si parla solo di garanzia – fanno prevedere che, se tutto andrà nel più ottimistico degli scenari, avremo un aumento degli investimenti di poco più di 100 miliardi all’anno.
E.: Non bastano?
G.: Teniamo conto che la mancanza di investimenti in Europa è stimata attorno ai 300 miliardi l’anno. Quindi, anche se tutto il piano sarà aggiuntivo agli investimenti che normalmente si farebbero – e questa è veramente una previsione più che ottimistica – siamo molto al di sotto di ciò che è necessario.
E.: Ritiene quindi che gli interventi del Piano Juncker non avranno quel carattere di addizionalità ritenuto indispensabile?
G.: E’ un problema molto importante. Questo piano ha come finalità precipua quella di stimolare gli investimenti privati. Ciò potrà avvenire se questi investimenti si aggiungeranno a quelli che si sarebbero verificati comunque e sarebbero stati finanziati comunque. Da come stanno andando le cose, temo proprio che questa addizionalità sarà difficile da raggiungere. Così avremo, sì, investimenti privati nel Piano Juncker, ma una buona parte sarà di sostituzione, cioè investimenti che si sarebbero fatti in ogni caso ma che adesso verrebbero fatti sotto il cappello del Piano Juncker.
E.: Perché siano in effettivamente aggiuntivi, non si potrebbe puntare su investimenti non immediatamente remunerativi? Ad esempio, la messa in sicurezza di un territorio dal rischio di disastro idrogeologico: non porta ricavi, ma evita allo Stato le spese per i danni di catastrofi future.
G.: In realtà, al centro del Piano Juncker vi sono investimenti che devono comunque generare dei ritorni, anche se possono presentare alto rischio o incertezza. Il Piano vuole mettere le risorse per coprire proprio questo alto rischio e consentire dunque tali investimenti. Quelli di cui lei stava parlando, pur molto importanti, sono però classicamente investimenti pubblici: devono finanziarli gli Stati perché il ritorno lo si può valutare solo in una società nel suo insieme. Bisogna capire fino a che punto si riuscirà a varare, contemporaneamente, investimenti che possano rientrare nel Piano Juncker e investimenti pubblici tradizionali. Perché un problema grosso, in Europa, è che l’aggiustamento di bilancio, in molti Paesi, è avvenuto soprattutto aumentando l’imposizione fiscale e riducendo gli investimenti pubblici. Un fatto estremamente negativo, perché l’investimento pubblico crea sviluppo e crescita nel medio-lungo periodo.
E.: Quindi, al di là del Piano Juncker, cosa serve all’Europa per una crescita economica sostenibile e duratura?
G.: Si deve intervenire su tre direzioni: moneta, fisco e riforme strutturali. Non va sottostimato ciò che è stato fatto negli ultimi anni per rafforzare la governance economica dell’area dell’euro e dell’intera Ue. Ma, così com’è oggi, non è in grado di assicurare stabilità a medio termine né crescita.
E.: Entri nel dettaglio, partiamo dal primo elemento che ha indicato: cosa bisogna fare per la moneta?
G.: Riguardo all’assetto della politica monetaria, la Bce sta facendo cose che qualche anno fa erano impensabili. Bisogna rafforzarla in questo suo ruolo di prestatore di ultima istanza (che acquista i titoli di Stato quando il mercato non li assorbe, ndr) e di garante di liquidità. In altre parole, deve diventare a tutti gli effetti una banca centrale come le altre.
E.: Il secondo elemento è il fisco.
G.: La politica fiscale europea non può essere la somma di tante politiche nazionali. Serve la capacità di creare strumenti di gestione collettiva. Deve essere messa in piedi, anche se gradualmente, una capacità fiscale europea.
E.: Riguardo alle riforme strutturali?
G.: Non devono essere lasciate solo ai singoli paesi. Certo, ogni Stato deve disegnarsi percorsi in funzione dei propri assetti e delle proprie prospettive. Ma bisogna creare un sistema per garantire che, se più Paesi mettono in atto le riforme, l’effetto può essere poi positivo per tutta l’Ue. Inoltre, si devono collegare le riforme nei Paesi membri a misure di incentivazione, di premialità, e non semplicemente prevedere punizioni se non fai delle cose, come avviene oggi.
E.: Gli interventi che indica non sembrano immediati da realizzare.
G.: Il problema è questo: possiamo facilmente disegnare degli assetti istituzionali, ma poi bisogna fare i conti con la politica, con il grado estremamente basso di coesione e di accordo che c’è oggi tra i Paesi. Tuttavia, si deve pur iniziare. È necessario prima di tutto essere consapevoli di dove si vorrà arrivare a medio termine, e poi va disegnato un percorso che sia fattibile. Naturalmente questo va elaborato con tutto il gradualismo e la concretezza che i vincoli esistenti impongono.