di Ambrose Evans-Pritchard
Posta sulle scrivanie dei governatori delle banche centrali e delle autorità regolatrici di tutto il mondo c’è una relazione scientifica che illustra la dimensione vertiginosa raggiunta dal debito globale in dollari Usa e accenna “delicatamente” agli orrori che sono in serbo, quando la Federal Reserve chiuderà il rubinetto della liquidità.
Questa relazione costituisce un vero e proprio incubo per quanti, a Singapore o a Hong Kong, si sono trovati dalla parte sbagliata in occasione del più grande margin call valutario nella storia della finanza (dicasi “margin call” la richiesta di ulteriori fondi da parte di un broker, dealer, banca o altra istituzione finanziaria al suo cliente a copertura del margine minimo necessario per assicurarsi contro le perdite sulle operazioni aperte). “La stanno leggendo tutti”, ha detto un veterano della Fed di New York.
La relazione, intitolata “Global dollar credit: links to US monetary policy and leverage”, è stata pubblicata dalla Banca dei regolamenti internazionali (Bri) lo scorso gennaio, e la sua pungente importanza sta crescendo di giorno in giorno. Essa chiarisce che negli anni del boom, a causa della politica dei tassi zero e del quantitative easing della Fed, i paesi emergenti sono stati invasi da una liquidità in dollari che ha travolto ogni loro difesa. Quest’abbondanza di dollari ha indotto le aziende asiatiche e latinoamericane ad indebitarsi in dollari come mai prima – a tassi reali vicini all’1 per cento –, rimandando la resa dei conti al giorno in cui il ciclo monetario degli Stati Uniti sarebbe cambiato, come in effetti sta facendo ora.
Contrariamente alla credenza popolare, il mondo è oggi più dollarizzato che mai. Gli stranieri hanno preso in prestito 9.000 miliardi di dollari al di fuori della giurisdizione americana, e si trovano quindi senza la protezione di un “prestatore di ultima istanza” in grado di emettere, in extremis, dollari in quantità illimitata. E questo a partire dai 2.000 miliardi di dollari del 2000!
La quota relativa ai mercati emergenti – soprattutto quelli asiatici – è raddoppiata rispetto ai 4.500 miliardi di dollari del periodo successivo alla crisi della Lehman, se si comprendono i “prestiti camuffati”, ottenuti attraverso banche registrate a Londra, Zurigo o alle Isole Cayman. Il risultato è che il sistema creditizio globale è molto sensibile a qualsiasi movimento della Fed. “Le variazioni del tasso d’interesse a breve termine si riflettono prontamente sul costo dei prestiti bancari in dollari Usa”, ha detto la Bri. I mercati stanno già scontando un tale cambiamento. Il cosiddetto “diagramma a punti” della Fed – che riflette il pensiero dei membri della Fed sui tassi futuri – fa cenno quest’anno a tre aumenti dei tassi, a cominciare da giugno.
Le sinistre implicazioni della relazione della Bri sono già assolutamente visibili. A causa dell’aumento esponenziale del dollaro, sono stati distrutti il real brasiliano, la lira turca, il rand sudafricano e il ringitt malese – mentre l’euro è stato spinto giù a $1.06, il valore più basso da dodici anni a questa parte.
L’indice del dollaro è salito del 24 per cento dallo scorso luglio, e del 40 per cento dalla metà del 2011. Si tratta del più grande e ripido aumento dalla metà degli anni novanta – causato anche dalla ripresa degli Stati Uniti, in coincidenza con un momento di debolezza europea, e dalla “stretta” della Fed – che generò, nel 1998, la crisi asiatica e il default della Russia.
I governi dei paesi emergenti hanno imparato l’amara lezione di quello shock. Non prendono più dollari in prestito. Ma le aziende private hanno più che compensato questa mancanza. “Il mondo è letteralmente poggiato sullo standard del dollaro – e non dell’euro o dello yen – ed è per questo che è così importante quello che fa la Fed”, ha dichiarato Stephen Jen, un ex funzionario dell’Fmi, ora alla “Slj Macro Partners. Jen sostiene che gli ultimi spasmi causati dallo stress dei mercati emergenti sono molto più gravi dei tremori verificatisi nel maggio 2013, quando la Fed cominciò a parlare di fine del quantitative easing. “I flussi di capitale verso questi paesi hanno continuato ad accelerare negli ultimi trimestri, ma si tratta soprattutto di denaro ‘capriccioso’. Il risultato è che ora, nel mucchio, c’è del legno ancora più secco a far da combustibile”, ha dichiarato. Jen racconta che le aziende asiatiche e latinoamericane stanno cercando di assicurare i loro debiti in dollari sui mercati dei derivati in modo frenetico, spingendo il dollaro ancora più in alto e alimentando conseguentemente un circolo vizioso. “È proprio in questo modo che cominciano le valanghe”, egli ha sostenuto.
Le aziende di tutto il mondo sono appese per le punta delle dita. La compagnia aerea brasiliana, la Gol, era in una situazione abbastanza buona quattro anni fa, quando il real era la valuta più forte al mondo. Ma ora tre quarti del suo debito è espresso in dollari. Questo ha determinato un orribile disallineamento valutario, man mano che il real è andato in caduta libera, perdendo metà del suo valore. I pagamenti degli interessi sui debiti contratti dalla Gol sono raddoppiati rispetto al flusso dei redditi, e i prestiti devono ora essere rimborsati o rinnovati, sempre che sia possibile, in un mondo che è molto meno benigno di quello di un tempo.
Non era possibile finanche pensare che un fondo sovrano asiatico potesse incorrere nei guai, ma all’inizio di quest’anno il fondo statale malese 1MDM è andato vicino al default per aver contratto un prestito troppo oneroso al fine di acquistare progetti energetici ed effettuare speculazioni edilizie. Le sue obbligazioni sono attualmente considerate “spazzatura”. Era diventato il salvadanaio delle élite politiche, e ora deve affrontare un’inchiesta per corruzione. Uno schema che sarà ricorrente, nei paesi Brics e mini-Brics, man mano che la marea di liquidità andrà a ritrarsi, portando in superficie il marciume sottostante.
I dati della Bri mostrano che i debiti in dollari delle aziende cinesi, dal 2008 ad oggi, sono quintuplicati, raggiungendo i 1.100 miliardi dollari, ma l’ammontare è quasi certamente superiore, se si includono le fonti di finanziamento “travestite”. Compreso nel flusso c’è un carry trade – operazione finanziaria che consiste nell’approvvigionarsi di fondi in un paese a costo del danaro basso per poi impiegare poi queste disponibilità in un paese con alti tassi di interesse – pari a 900 miliardi di dollari, fatto per lo più attraverso Hong Kong, che equivale ad una enorme scommessa collettiva su un calo del dollaro. Sarà senz’altro un disastro se la Cina dovesse cominciare a ridurre il valore dello yuan, per mantenere in vita la sua crescita.
Manoj Pradhan della Morgan Stanley ha dichiarato che i mercati emergenti sono stati in grado di resistere al picco del dollaro, nel 2014, perché la minaccia della deflazione mondiale è stata in grado di frenare il costo globale dei finanziamenti. Ma ora i tassi sono in aumento. Persino il Sibor trimestrale di Singapore (Singapore Interbank Offered Rate), utilizzato per i prestiti interbancari, si è adeguato in tutta fretta. A questo si aggiunge il fatto che le banche centrali dei paesi in via di sviluppo hanno smesso di comprare obbligazioni estere, dopo che avevano aumentato le loro riserve fino a 11.000 miliardi di dollari, dai 1.000 dell’anno 2000.
L’Institute of International Finance ha calcolato che la crisi del petrolio ha ridotto il flusso di petrodollari di 375 miliardi di dollari l’anno. Gli esportatori di petrolio passeranno dalla posizione di “acquirenti netti” – per un importo, nel 2013, di 123 miliardi di dollari in obbligazioni e asset esteri – a quella di “venditori netti” – per un importo, quest’anno, di 90 miliardi di dollari. La Russia ha venduto asset e obbligazioni estere per un importo pari a 13 miliardi di dollari nel solo mese di febbraio. Anche la Cina ha cambiato posizione, diventando “venditrice netta” alla fine dello scorso anno, man mano che la fuga di capitali andava ad accelerarsi.
La liquidazione delle riserve comporta automaticamente una stretta monetaria, a meno che non intervenga una compensazione. La Cina ha ancora la possibilità di poterlo fare. Ma la Russia non è così fortunata, e non lo è nemmeno il Brasile. Se questi due paesi tagliano i tassi d’interesse rischiano un’ulteriore scivolata valutaria.
Le potenti correnti sotterranee del sistema finanziario mondiale stanno turbinando sotto la superficie. Alcuni sperano che la baldoria costituita dai 60 miliardi di euro mensili del quantitative easing della Bce possa far perdurare il boom degli asset, man mano che la Fed si tira indietro. Ma questa è un’arma a doppio taglio per il mondo nel suo complesso, perché spinge il dollaro ancora più in alto. Ed è questo, infine, il fatto più rilevante.
È possibile che alla fine la Fed cambi idea ancora una volta, rinunciando ad alzare i tassi, poiché ritiene che l’economia mondiale sia ancora troppo fragile per resistere a qualsiasi forma di stretta monetaria. Il modello di previsione della Federal Reserve di Atlanta, concepito per misurare la crescita del Pil reale negli Stati Uniti, è fortemente rallentato da metà febbraio.
Ma il messaggio che negli ultimi giorni è filtrato dal board dei governatori della Fed – tra cui Dennis Lockhart della Fed di Atlanta – è che un aumento dei tassi non può essere rimandato molto più a lungo. “Sarà sul tavolo di tutte le riunioni dei governatori da giugno in poi”, ha dichiarato.
Le più recenti verbalizzazioni della Fed hanno riportato la preoccupazione che il diluvio di capitali che sta arrivando negli Stati Uniti, sulle spalle del dollaro forte, possa far ribassare i tassi dei prestiti a lungo termine, “allentando” di fatto la politica monetaria statunitense. Questo, a loro parere, rende ancora più urgente la “stretta” della Fed, che implica un percorso ancor più stringente verso un prossimo aumento dei tassi. Nessuno dovrebbe contare sul fatto che la Fed, anche questa volta, possa ripensarci. Il mondo riceverà la punizione che merita.
Pubblicato sul Telegraph l’11 marzo 2015.