E’ bello per un governo dire “abbiamo un grande piano per gli investimenti europeo che favorirà la crescita e l’occupazione”, ma poi far finta di niente e non aiutare il piano a partire. E’ anche bello dire che l’Unione europea è solidale con i poveri del mondo, con i perseguitati politici e religiosi, salvo poi chiudersi nelle proprie frontiere.
E’ quello che accade, da sempre, nel rapporto tra i governi nazionali e l’Unione europea. Quando c’è una bella cosa da dire la si dice e si cerca un po’ sempre di appropriarsene, quando la notizia è meno gradita se proprio non la si può tacere, la colpa viene data “a Bruxelles”. Ci sono un paio di esempi di queste settimane che dimostrano come gli Stati ancora la facciano da padrone nell’Unione europea, e che da Bruxelles non si riesce a smuovere nulla se nelle varie cancellerie non si decide di agire.
Il Piano per gli investimenti lanciato dalla Commissione europea potrebbe anche non essere una gran cosa, comunque è stato lanciato, i governi, tutti, lo hanno salutato come la grande occasione per ripartire. Poi si scopre che, strada facendo, solo quattro Stati hanno fatto la loro parte mettendo dei soldi (Italia, Germania, Francia e Spagna). Gli altri latitano, dicono che vogliono aspettare di capire bene come funziona, quali sono le regole e gli obiettivi. A dirla tutta neanche i quattro governi che hanno messo i soldi hanno dato carta bianca a Bruxelles: senza scendere in tecnicismi, in sostanza, i fondi promessi restano sotto il controllo delle capitali. Ma almeno in qualche forma ci sono.
Certo per la Francia e la Germania, ad esempio, che confinano, che hanno già numerose integrazioni, che hanno presentato progetti giudicati dagli esperti “fichissimi”, è più facile lanciarsi che per il Portogallo, ad esempio, che confina solo con la Spagna (un gigante al suo confronto) o per la Bulgaria o l’Estonia, piccoli stati periferici. Anche i piccoli stati centrali hanno dubbi e resistenze: nei progetti di livello “europeo” è difficile alle volte per loro raccogliere qualcosa in grandi accordi tra grandi Stati. Ma comunque, per ora, ancora non ci sono. Jean-Claude Juncker proprio questa mattina lo ha detto: “Se qualche governo si lamenta che il Piano stenta a partire, per prima cosa metta mano al suo portafoglio”.
Se non ci sono i fondi pubblici, ha chiarito per gli industriali europei Emma Marcegaglia, presidente della loro associazione, è difficile che arrivino quelli privati, anche perché “noi vorremmo pochi progetti, ben pensati, con buone prospettive” e poi “in giro soldi ce ne sono tanti e se ne potrebbero trovare”. Ma se i governi non si muovono, se i soldi e i progetti non arrivano, diventa tutto così difficile…
L’Europa degli Stati è questa, è quella che impedisce che possa esistere una politica estera europea, che lega le mani all’Alto rappresentante, chiunque essa sia. Juncker tenta di tenere caldo il tema, il sogno, di un’Unione federale, lo ha fatto anche con quella sua breve battuta sull’esercito europeo, che lui vorrebbe, anche se sa perfettamente che non è cosa di oggi.
Come ha detto oggi il presidente della Banca centrale europea Mario Draghi in audizione al Parlamento italiano: “l’Unione rimane fragile perché le riforme rimangono affidate ai singoli ambiti nazionali”. Secondo Draghi “non c’è modo di garantire che i paesi prendano le misure necessarie per farne membri all’altezza dell’unione monetaria, questa è una cosa a cui occorre guardare per pensare un cambiamento”. Nel contempo “trincerarci nuovamente nei confini nazionali non risolverebbe nessuno dei problemi che abbiamo di fronte”.
Dei passi si stanno facendo, è vero, seppure con enorme difficoltà ed ancora i percorsi non sono compiuti. Dopo l’Unione bancaria questa Commissione europea vorrebbe portare a termine anche quelle dell’energia (che sarebbe davvero il più grande progetto nella storia dell’Unione) e quello del digitale, perfezionando anche il Mercato interno, “vorrei che questo esecutivo comunitario passasse alla storia come quello che lo ha completato”, ha detto di recente il vice presidente della Commissione Jyrki Katainen, che non è per niente un falco, ma uno che tenta di negoziare.
Il blocco però è lì, negli Stati, nel fatto che ancora non si è deciso di fidarsi davvero gli uni degli altri, che in molti ancora pensano che a livello nazionale si possano gestire meglio crisi e opportunità. Invece è lì il problema, che l’ultima parola resta sempre nelle bocche delle cancellerie.