La Commissione europea, il Consiglio, i governo, stanno febbrilmente lavorando a definire la governance del Piano Juncker per gli investimenti. Soldi ancora ce ne sono pochi, ma proprio perché mancano ancora le regole molte cancellerie hanno fatto sapere che per il momento non vogliono impegnarsi a finanziare il Fondo ad hoc e neanche sono in grado di dire se e quanti soldi metteranno nella realizzazione dei progetti.
“Siamo ancora alla filosofia”, dice un osservatore vicino al dossier, ma la filosofia può anche produrre dei mostri, come è successo spesso. Uno dei temi più scottanti è il criterio che verrà definito per stabilire quali progetti finanziare. Alla Commissione ne sono arrivati a migliaia, alcuni saranno buoni, altri strampalati. Ne dovrà selezionare qualche decina, tra quelli che si giudicheranno più interessanti per stimolare la partecipazione dei privati e per gli effetti che potranno avere sulla crescita e l’occupazione.
Proprio qui è il problema. “Dobbiamo garantire che il Fondo non finanzi solo gli investimenti di alcuni Stati”, spiega un importante diplomatico di un paese del Sud Europa. La preoccupazione è che i Paesi più ricchi, quelli con un sistema industriale e infrastrutturale più avanzato possano fare la parte del leone. E’ noto, ad esempio, che la Germania da qualche anno ha fortemente rallentato i suoi investimenti infrastrutturali, pubblici e privati, ma nel contempo è indiscutibile che abbia un ottimo tessuto industriale ed economico in generale, e che dunque investire lì è certamente un ottimo affare. Talmente ottimo che da qualche anno si investe addirittura in titoli pubblici a rendimento negativo. Investire, ad esempio, in Grecia, in Bulgaria o, per tanti versi, anche in Italia, può offrire minori garanzie di redditività.
“Bisogna fare un lavoro molto serrato sulla governance”, continua lo stesso diplomatico, che difende una posizione avanzata, ad esempio, anche dal Comitato delle Regioni, che ha recentemente approvato un documento, sostenuto dall’italiana Catiuscia Marini, nel quale si chiede che i territori abbiano una voce in capitolo nella scelta degli investimenti. Chi è preoccupato teme che ci siano Paesi in grado di presentare nella maniera migliore i propri progetti, offuscando magari idee un po’ meno “ben esibite”, ma che potrebbero avere impatti importanti. “Bisogna rispettare le priorità che sono state definite”, insiste il diplomatico, e dunque crescita e occupazione, in particolare dove si è in ritardo, dove c’è maggiore bisogno di intervenire proprio per “mettere a regime” tutta la macchina.
“Dobbiamo fare attenzione – sintetizza il diplomatico – che i soldi non vadano solo a chi ha i tassi di crescita più forti”. In questa frase è facile leggere la preoccupazione di chi teme che Germania, Finlandia, Olanda, ma anche Gran Bretagna, ad esempio, si prendano il meglio. Dall’Italia si preme perché progetti come Horizon 2020 (ricerca) e Cef (infrastrutture dei trasporti), che sono stati “saccheggiati” dalla Commissione per recuperare la ventina di miliardi messi a disposizione del Piano Juncker vengano in qualche modo rifinanziati attraverso i progetti di investimento.
L’allarme che cresce, ma, “siamo ancora solo alla filosofia”, è che non si valuti la qualità dei progetti legata ai territori dai quali vengono, ma che si punti su benefici magari più immediati ma ristretti. C’è una pubblicità, diffusa in questi mesi, che recita: “Ti piace vincere facile?”. Ecco, è proprio quello che ci si deve augurare che non accada. Si deve vincere, ma vincere bene, facendo sì che il Piano, se mai davvero partirà, perché i dubbi son tanti, serva a quello per cui lo si è pubblicizzato: la crescita e l’occupazione di tutta l’Europa. E dunque sostenendo, ovviamente, chi è più in ritardo e deve agganciarsi al carro europeo per renderlo, tutto, più veloce e possente.