di Mark Blyth, professore di economia politica internazionale alla Brown University @MkBlyth
Mark Blyth è autore del libro Austerity: The History of a Dangerous Idea. Il testo che segue è la trascrizione del suo discorso di ringraziamento pronunciato in occasione del ricevimento del premio Hans-Matthöfer per il miglior libro di economia pubblicato in Germania nel 2014, tradotto in esclusiva da Oneuro.
È un onore essere qui oggi e ricevere l’Hans-Matthöfer-Preis für Wirtschaftspublizistik, soprattutto visto il livello della concorrenza, che include scrittori e giornalisti del calibro di Thomas Piketty e Wolfgang Münchau. Ma è anche ironico essere premiato proprio in Germania, il paese che più di ogni altro sembra impermeabile al messaggio del libro per il quale mi state premiando. Che sia il segnale che quel messaggio comincia ad essere ascoltato, almeno tra i socialdemocratici? L’austerità non funziona. Laddove sembrava che funzionasse, si è poi scoperto che in realtà erano altri i fattori che contribuivano alla crescita: solitamente una svalutazione competitiva praticata nello stesso momento in cui un importante partner commerciale di quel paese si trovava in una fase di espansione economica, con conseguente ricaduta positiva sulle esportazioni nel breve. Il bilancio veniva snellito nello stesso momento in cui le esportazioni crescevano, ma non erano i tagli a fare la differenza; erano le esportazioni.
Oggi tutti guardano alla Grecia e si chiedono se il paese farà default o uscirà dall’euro. Al momento il raggiungimento di un accordo duraturo sembra quasi impossibile perché entrambe le parti si trovano in una situazione difficilissima: da un lato i greci non sono in grado di rimborsare il debito perché le politiche imposte al paese in questi anni invece di stimolare la crescita hanno distrutto quasi un terzo dell’economia nazionale, costringendo molti giovani ad andarsene; dall’altro la Germania e gli altri paesi creditori temono che riconoscere questa semplice verità farà sorgere nuovi contenziosi con altri paesi debitori come l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo. Come uscire da questa impasse, e qual è il ruolo che dovrebbe assumere un partito socialdemocratico in questo processo? Le questioni chiave da tenere a mente sono due, a mio avviso. La prima è quella che nel libro chiamo “la falsa promessa delle riforme strutturali”. Nessuno mette in discussione il fatto che i paesi debitori necessitino di riformare i loro sistemi tributari, burocratici, del lavoro, ecc. Ma…
- quando parliamo di “riforme strutturali” spesso non sappiamo di cosa stiamo parlando, e ci appelliamo ad esse per non ammettere apertamente che le politiche di austerità hanno fallito; e
- ignoriamo le specificità che hanno permesso ad alcuni paesi di effettuare tali riforme in passato e dunque non ci rendiamo conto che esse non possono essere replicate altrove.
Cercherò di spiegarmi meglio. Un tempo le “riforme strutturali” erano chiamate “aggiustamenti strutturali” ed erano oggetto di critiche ferocissime da parte della sinistra europea; eppure oggi quella stessa sinistra (almeno a livello istituzionale) rimane in silenzio mentre quelle stesse identiche politiche, che tanti disastri hanno provocato nei paesi in via di sviluppo, vengono imposte ai paesi europei. Il normale pacchetto di riforme strutturali oggi include: meno tasse, e poi deregolamentazioni, liberalizzazioni e privatizzazioni a tutto spiano. Ma queste non sono esattamente quelle politiche tipicamente anglosassoni – se non addirittura reaganiane – che noi europei abbiamo sempre criticato e che molti tedeschi non sarebbero mai disposti ad accettare? Non rappresentano forse tutto ciò contro cui un partito come l’Spd si dovrebbe battere?
Certo, le riforme oggi in Europa vengono mascherate dietro al mantra della competitività; ci dicono che dobbiamo diventare tutti “più competitivi”. Sembra una cosa sensata, finché non ci si rende conto che diventare “più competitivi” nei confronti di paesi che appartengono alla stessa area monetaria crea un problema di “media mobile” di dimensioni continentali. Da un punto di vista statistico, l’idea di diventare tutti più competitivi è assurda. Sarebbe come chiedere a tutti di essere al di sopra della media. Sembra una buona idea, finché non applichiamo il concetto al livello di intelligenza degli studenti di una certa classe. Per definizione ci sarà sempre qualcuno “meno sveglio” degli altri, anche in una classe di geni.
Qualcosa però deve essere fatto. Spesso ci sentiamo dire che la Germania un tempo era il “malato d’Europa” ma poi ha ingoiata la “pillola amara” delle riforme Hartz e così è diventata più competitiva. Grazie a questo la Germania è riuscita a resistere alla crisi e anzi è addirittura diventata più forte. La conclusione che ne viene tratta è che anche il resto dell’Europa oggi deve fare lo stesso e abbracciare la strada delle “riforme strutturali”. È una storia che oggi va molto di moda. Ma è una storia che ha molto poco a che vedere con la realtà, e che si basa su una lettura errata della recente storia tedesca. Christian Dustmann e i suoi colleghi hanno approfondito questa vicenda meglio di chiunque altro e hanno concluso che a rendere l’economia tedesca più competitiva sono stati tre fenomeni correlati che sono accaduti prima dell’introduzione delle riforme Hartz.
- In primo luogo, la riunificazione. L’ingresso, praticamente da un giorno all’altro, di dieci milioni di nuovi lavoratori sul mercato del lavoro ha determinato una fortissima pressione al ribasso sui salari, che si è cominciata a notare intorno al 1994.
- La delocalizzazione della produzione dei componenti per l’industria automobilistica tedesca nei paesi dell’ex blocco sovietico, che ha reso le esportazioni tedesche ancora più competitive. Questo fenomeno si è verificato più o meno in contemporanea al precedente.
- La politica dei sindacati tedeschi, che sempre in quegli anni si sono resi conto che la globalizzazione iniziava al di là dell’Elba e hanno praticamente smesso di chiedere aumenti salariali.
Questi tre fenomeni hanno determinato una stretta sui salari che va avanti quasi da vent’anni e che è stata compensata in parte dal sistema di welfare. È da questo che deriva la maggiore competitività dell’economia tedesca. Quello che ha fatto dieci anni più tardi la riforma Hartz è stato togliere la copertura previdenziale ai disoccupati e offrirgli in cambio dei mini-job. Questo ha portato alla proliferazione di impieghi precari, malpagati e poco competitivi nel settore dei servizi.
Il settore delle esportazioni, la parte più “competitiva” dell’economia, è dipendente dalla domanda generata altrove nel mondo; inoltre, l’occupazione in questo settore continua a calare, man mano che il lavoro viene sostituito dal capitale. Se l’analisi di Dustmann e dei suoi colleghi è corretta – e io credo che lo sia – allora le chances di poter applicare la “lezione tedesca” agli altri paesi del continente sono praticamente nulle. Non esistono altre Germanie dell’Est pronte a spingere all’ingiù il costo del lavoro, e anche se ci fossero questo avrebbe solo l’effetto di ridurre ulteriormente la domanda aggregata, producendo un impoverimento generalizzato. La vera lezione da trarre da tutta questa vicenda è che la Germania è quello che è solo perché tutti gli altri non sono come lei. Cercare di rendere tutti “un po’ più tedeschi” porterà solo alla diffusione di impieghi precari e malpagati nel settore dei servizi. Non penso che i fautori delle riforme strutturali auspichino questo ma è quello che accadrà se continuiamo ad insistere su questa strada. La seconda questione su cui vorrei invitarvi a riflettere è la facilità con cui oggi parliamo di “paesi creditori” e “paesi debitori” – invece di parlare di “paesi europei” –, come se essere creditore o debitore sia una caratteristica nazionale. Uno degli effetti più perniciosi delle politiche di austerità è proprio questa tendenza a ridurre complesse realtà istituzionali e di classe a questioni di razza e di identità.
Ma c’è un problema ancora più ampio con cui i partiti della sinistra si devono confrontare; un problema che loro stessi hanno contribuito a creare, purtroppo. Negli anni settanta – un periodo piuttosto benigno se paragonato ad oggi – i profitti delle imprese erano molto bassi, la quota salari era molto alta e l’inflazione era in crescita. Ci fu detto che questa situazione era insostenibile, e per risolverla – e far sì che essa non si verificasse mai più – furono creati nuovi apparati politici ed istituzionali. Da questo punto di vista siamo stati straordinariamente efficienti: oggi i profitti delle imprese non sono mai stati così alti, la quota salari è quasi ai minimi storici e l’inflazione ha lasciato il passo alla deflazione. Possiamo dirci soddisfatti di quello che abbiamo creato?
La verità è che negli ultimi trent’anni abbiamo creato un “paradiso per creditori” fatto di tassi di interesse reali positivi, bassa inflazione, mercati aperti, sindacati spompati e governi in ritirata; un paradiso attentamente sorvegliato da ufficiali non eletti all’interno di banche centrali e di altre istituzioni non democratiche che hanno un solo obiettivo: assicurare la sopravvivenza di questo paradiso per creditori.
Poi ci chiediamo perché in questo “mondo nuovo” i salari non crescono e la disuguaglianza è in aumento ovunque. In Europa questo processo di redistribuzione della ricchezza assume una dimensione non solo nazionale ma anche internazionale, nella divisione tra paesi creditori (buoni) e paesi debitori (cattivi), in cui i diritti dei creditori devono essere salvaguardati e i debiti “devono essere ripagati a tutti i costi”. Si tratta però di una strategia che non ha senso neppure da un punto di vista strettamente economico: se esigere il rimborso del debito vuol dire porre il debitore in una condizione di “servitù da debito”, o se il costo di una ristrutturazione è inferiore a quello di una politica basata sul rimborso del debito in eterno, allora il default e/o la ristrutturazione è una scelta razionale oltre che morale.
È tristemente ironico che oggi, come è giusto che sia, i socialdemocratici europei si preoccupino così tanto della clausola a protezione degli investitori, l’Isds, contenuta nel Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti, il Ttip, mentre allo stesso tempo chiedono ai loro partner europei esattamente le stesse garanzie a protezione dei creditori per i soldi che gli hanno “prestato” per salvare le proprie banche. Se i partiti socialdemocratici cominciano a pensare che questo sia normale, vuol dire che qualcosa è andato molto, molto storto. La domanda sorge spontanea: “Quali ideali rappresentate, se siete a favore di questo?”. Oggi i socialdemocratici tedeschi – gli eredi di Rosa Luxemburg – sono in prima fila nel difendere questo paradiso per creditori. Questo è veramente quello che volete essere? Nella storia moderna dell’Europa, l’Spd si è trovato varie volte dalla parte sbagliata della storia. Questo è un altro di quei momenti.
Sono contento che il mio libro sia servito a ricordarvi la povertà delle idee che al momento state difendendo. Ma dovete ritrovare la vostra voce, non solo la vostra memoria storica. Non state perdendo voti perché non assomigliate abbastanza alla Cdu, ma per il motivo opposto: perché la gente vi considera una pallida imitazione dei conservatori.
Spero che il mio libro ricordi all’Spd che il motivo per cui esistono non è quello di difendere gli interessi dei creditori. Vi ringrazio per questo premio e spero che questo libro ci incoraggi tutti a pensare all’economia che vogliamo costruire per noi, per i nostri figli e per tutti i cittadini europei.
Per maggiori informazioni:
– Da cosa deriva l’intransigenza tedesca nei confronti della Grecia?
– Germania: il vero malato d’Europa
– Il nuovo nazionalismo economico tedesco
– Accordo Grecia-Ue: chi è il vero vincitore?
– Il mondo è dalla parte di Tsipras: ma basterà a convincere la Germania?