L’Isis, gruppo terrorista islamista che da Al-Qaeda ha preso l’ispirazione ideologica, della formazione fondamentalista creata da Osama bin Laden è una evoluzione che, se non ancora delle stesse dimensioni in quanto a militanti, di quest’ultima può essere molto più pericolosa. Questo perché il cosiddetto Stato islamico è dotato di un sistema di propaganda molto più efficace e si propone concretamente l’obiettivo di conquista e mantenimento del controllo sul territorio. Ad affermarlo è Arturo Varvelli, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) che, in una conferenza alla Commissione esteri del Parlamento europeo, ha presentato lo studio “Ramificazioni dello ‘stato islamico’ nei paesi del Maghreb e del Mashreq”. Secondo la ricerca di Varvelli esiste una sorta di coesistenza competitiva tra Isis e Al-Qaeda; e sarebbe stato, tra le altre cause, il minore carisma di Al-Zawahiri rispetto al suo predecessore Bin Laden a favorire la crescita dello Stato islamico.
A differenza di Al-Qaeda, di cui appare a tutti gli effetti come una sorta di “evoluzione”, l’Isis non si limita ad attività di tipo terroristico, ma mette in atto una vera e propria strategia di conquista territoriale; l’uso intensivo della propaganda inoltre lo distingue nettamente dall’organizzazione di Al-Zawahiri in quanto, diversamente dai filmati di Bin Laden che lo ritraevano molto spesso in una grotta, l’Isis invece pubblicizza propri video per sottolineare la sua presenza all’interno dei teatri di guerra, e quindi affermando la sua forza e la sua volontà di farsi Stato attraverso il controllo degli spazi. La propaganda dell’Isis, secondo lo studio di Varvelli, ha una doppia funzione: una interna, con cui si mira a soggiogare la propria popolazione; ed una esterna, con cui si mira a terrorizzare i nemici. Molto spesso però la potenza che si vuole manifestare attraverso questi mezzi è superiore a quella effettiva, e dunque va vista come una proiezione della stessa rispetto a quella reale.
Per quanto riguarda il dilemma di come l’Isis possa ed abbia potuto finanziare la propria attività, Varvelli sostiene che il finanziamento esterno sia stato marginale. Le monarchie del Golfo hanno inizialmente contribuito “indirettamente e inconsapevolmente” al finanziamento degli oppositori di Bashar al-Assad, sostenendo in questo modo anche l’Isis; così come, sottolinea lo studioso, “è stato fatto in un primo momento anche dalla Turchia e dalla stessa Giordania”, il cui re ultimamente ha dichiarato guerra allo Stato islamico. In buona sostanza l’Isis può godere degli introiti derivanti dalla vendita di petrolio, “di cui una parte ad esempio è acquistata da Siria e Turchia”, arriva a dire il professore, grazie al controllo dei pozzi e ad una produzione di quaranta mila barili al giorno. L’Isis è stato in grado inoltre di “impadronirsi dei fondi della banca centrale di Mosul, applica tasse sulla popolazione che controlla, ha goduto dei beni confiscati ai cristiani e, non da ultimo, ha accesso all’acqua”, bene preziosissimo in certe zone del mondo.
Rischi di ulteriore espansione esistono in vari Paesi considerati, ora o in passato, abbastanza stabili. In Giordania, monarchia solida, il pericolo è dovuto alla prossimità geografica, tuttavia vi è anche una minaccia interna, con l’espansione di gruppi radicali, campi profughi in cui ha facile presa ogni sorta di estremismo, capi tribali ostili al governo, e gli jihadisti che, dai campi di battaglia in Siria e in Iraq, fanno ritorno nel Paese e generano destabilizzazione.
In Giordania però, grazie ad un buon esercito e ad un efficace servizio di intelligence, la situazione è meno critica che in Libano, dove il sistema politico è più fragile e dove Hezbollah, che appoggia Assad, nel contenere i radicalismi sunniti li ha in qualche modo anche risvegliati.
In Africa sono Tunisia e Algeria ad avere i maggiori problemi nei confronti dell’espansione jihadista e così nuovi gruppi hanno dichiarato alleanza con il califfato, all’interno di lotte tra fazioni che vedono i vecchi capi allineati con Al-Qaeda e le nuove realtà che appoggiano Al-Baghdadi. In quei Paesi inoltre dove la povertà è più diffusa gli estremismi hanno maggior possibilità di infiltrarsi; è quello che accade in Tunisia, “dove un pericolo saranno, in un prossimo futuro, anche i combattenti che, tornando in patria, potrebbero causare non pochi problemi di instabilità”.
Ma il vero “santuario dei gruppi jihadisti del Nord Africa”, dice Varvelli, è la Libia, in cui diverse fazioni si combattono l’una contro l’altra senza però riuscire a comandare il territorio. “Un’alleanza di jihadisti costituitasi a Derna, nell’est del Paese, sta avanzando verso Sirte, la città natale di Gheddafi, seguendo una precisa strategia suggerita da emissari di Al-Baghdadi”, e non è da escludere che lo stesso clan legato al vecchio ra’is tolleri e accolga favorevolmente l’ingresso dell’Isis, secondo il professore.
Un intervento esterno per combattere lo Stato islamico potrebbe rischiare però di portare le varie fazioni jihadiste a unirsi nella lotta al nemico comune. In Libia, ad esempio, non esiste solo l’Isis, ma anche un gruppo ben più numeroso ma meno noto che risponde al nome di Ansar al-Sharia. L’Unione europea, secondo Varvelli, dovrebbe cercare di affrontare la lotta all’estremismo includendo politicamente quelle frange di popolazione che, pur non militando all’interno di gruppi armati, aderiscono però in qualche modo allo Stato islamico o ad altri gruppi estremisti. Un altro strumento di lotta al fondamentalismo potrebbe essere quello di agevolare, attraverso finanziamenti, lo sviluppo e la stabilizzazione delle aree critiche, e di mettere in atto parallelamente programmi di deradicalizzazione all’interno dell’Europa.
“L’Ue è stata profondamente incoerente in tutti questi anni”, ha affermato il professore, secondo cui non c’è stata una politica comune, ma solo iniziative singole degli Stati membri che si basano su rapporti economici. “È necessaria quindi”, ha rimarcato, “l’attuazione di una politica estera seria”, dato che di là dalla barricata vi sono individui che hanno sublimato la cultura della morte, opposta a quella della vita, abbandonando ogni paura di morire.
Per quanto riguarda gli Stati arabi, secondo Varvelli è necessaria una collaborazione, ma è indispensabile anche che essi attuino una politica univoca, senza appoggiare invece, come è il caso della Libia, “una transizione moderata solo a parole, appoggiando poi invece l’una o l’altra fazione politica”.
Un aspetto fondamentale è poi quello del “dopo intervento”. La comunità internazionale non deve, come avvenuto dopo la morte di Gheddafi, condurre immediatamente la popolazione alle urne, bensì serve, è l’opinione del professore, un processo di formazione nazionale e statuale che solo in un secondo momento possa portare ad elezioni democratiche. Il parere di Varvelli è che la retorica dell’Ue sia troppo sbilanciata sui diritti umani e sui processi di democratizzazione, senza però offrire progetti di sviluppo concreto. Servirebbe inoltre, continua il ricercatore dell’Ispi, il coinvolgimento dell’Iran, senza la cui collaborazione non si può pensare un Medio Oriente in pace; “ed è quindi compito dell’Ue fare da ponte tra la comunità internazionale e questo Paese”, che, nell’ultimo periodo, ha affrontato importanti cambiamenti, e che pur non appoggiato in toto nelle sue politiche di governo può comunque diventare un “attore partecipativo della sistemazione di alcune delle crisi più importanti”, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Siria al Libano. “Rischi altissimi invece potrebbero esserci nel caso di un intervento armato in Libia”, continua Varvelli; “solo in seguito ad un accordo, patrocinato dall’esterno, delle fazioni maggiori, e alla sanzione di quelle che rimangono ostili, si può eventualmente riflettere su un’azione militare”; mentre, conclude, “favorire invece personalità come il generale libico Khalifa Haftar potrebbe dare in un primo momento buoni frutti, ma portare successivamente all’accentuarsi di autoritarismi come quelli che in passato si è cercato di ostacolare”.