Gli Stati dell’Unione europea, anni fa, hanno deciso di darsi un Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza. Una figura ibrida, a metà membro della Commissione e a metà capo di un servizio diplomatico che a sua volta è composto da funzionari provenienti dalla Commissione, dal Consiglio europeo e dalle diplomazie nazionali. Una figura sulla carta potente, che ha le poltrone giuste nei posti giusti, che ha al suo servizio la crema dei funzionari europei.
Una figura che però non ha un ruolo definito e che, soprattutto, dovrebbe ritagliarsi una funzione in un settore delicatissimo per i governi nazionali. E’ un po’ come se si fosse creato un ministro delle Finanze europeo, o quello dell’Istruzione, o della Sanità. In questi campi, dove pure avrebbe molto senso un forte coordinamento centrale, non ci si è neanche provato. Nella politica estera si è deciso di farlo in via, apparentemente, sperimentale. Catherine Ashton ha passato cinque anni ad organizzare l’ufficio, che ha proprio visto materialmente costruire, proprio a metà strada tra Commissione e Consiglio (ma più vicino alla Commissione). La baronessa ha lasciato una traccia evidente nel percorso di pacificazione tra Serbia e Kosovo (anche grazie al gran lavoro di un ottimo diplomatico italiano che lavora al Servizio esterno, Fernando Gentilini) e nei negoziati con l’Iran. Per il resto non ci saranno altri motivi per ricordarsi di lei.
Basta fare un giro tra le rappresentanze diplomatiche a Bruxelles (anche quelle più importanti) per rendersi conto che Mogherini sta lasciando un segno diverso. Come lei vuole non si parla di una “giovane donna”, perché donna lo è da almeno 25 anni, e quindi non è più “giovane” e anche perché questo attributo in realtà spesso sembra segnare una accondiscendenza verso qualcuno ancora impreparato, una tolleranza verso qualcuno che può fare ancora qualche pasticcio. Tutto questo, ovviamente, nel giudizio degli “anziani” che tanto magistralmente hanno guidato l’Unione in questi anni. Le parole che si sentono sulla politica italiana sono “intraprendete”, “efficiente”, “determinata”. Ancora manca la parola “effective”, a dire che riesce a portare a termine dei progetti, ma in questo si può essere pazienti, è lì da poco più di tre mesi.
Qualche parlamentare (anche qualcuno con scarso desiderio di analisi e disperata ricerca di visibilità a buon mercato) ha attaccato Mogherini sostenendo che il suo ruolo è ininfluente nelle grandi opzioni della politica estera europea. Potrebbe esser vero, ma non vi è responsabilità personale in questo. I governi europei hanno deciso di non trasferire il potere di indirizzare la politica estera ad una sola persona, ma di tenersi ognuno le maggiori prerogative di questa azione. Cosa comprensibile, visto il quadro generale, dato che riguarda la sicurezza nazionale, la politica commerciale, insomma interessi primari, e diversi, dei singoli Paesi: il Portogallo ha molti interessi diversi dall’Estonia, e la Gran Bretagna li ha dall’Italia, pur non essendo necessariamente divergenti. Dunque Ashton, Mogherini o anche un più navigato esponente della politica estera in Europa sono e sarebbero nella stessa situazione. Ora c’è stato il caso Ucraina, con la cancelliera tedesca e il presidente francese che si sono fatti parte dirigente nel tentativo di risolvere la crisi. Forse è vero, come in realtà ammettono qualificati diplomatici a Bruxelles, che l’iniziativa è stata bilaterale, che gli altri Paesi non sono stati nemmeno consultati, e che, probabilmente, Mogherini è stata solo “informata”.
Qualcuno ha usato questo episodio per dire polemicamente che l’Alto rappresentante “non conta”. Però allora bisogna far chiarezza su cosa si vuole dalla politica europea complessiva. Perché si chiede alla Germania di fare la locomotiva dell’economia europea o all’Italia di fronteggiare i flussi di migranti dal Mediterraneo, o alla Gran Bretagna di essere una piazza finanziaria più coinvolta con il resto dell’Unione? Perché ci sono materie, realtà, nelle quali un Paese per i motivi più diversi ha più responsabilità di altri e gli si chiede di muoversi, lui, per il beneficio della comunità. Come non c’è un ministro dell’Economia europeo e non c’è un ministro dell’Immigrazione, così non c’è un ministro degli Esteri. E’ una scelta, che non condividiamo, ma che è stata fatta, e produce dei risultati, ovviamente.
Sulla politica estera però con l’istituzione del Servizio esterno un passo in più rispetto ad altri settori lo si è fatto, e la sua impronta può essere, al momento, in un lavoro più oscuro, ugualmente faticoso, ma certamente altrettanto utile che la gestione della “grandi crisi”. Una parte di questo lavoro è nella implementazione delle politiche che vengono disegnate, con l’azione dei governi, e poi discusse nel collegio del ministri degli Esteri dell’Unione. Un’altra, per fermarsi alle grandi linee, è tessere una tela di conoscenza dei territori e di progressiva influenza dell’Unione nel suo complesso. Poi è evidente che in caso di crisi i Paesi devono prendere il timone: l’Unione non ha esercito, non ha gran soldi, come può trattare impegni con un Paese terzo quando questi elementi diventano decisivi? In Ucraina, dove errori ne sono stati fatti in gran quantità, come potrebbe l’Unione trattare con Mosca quando non ha la possibilità di fare minacce militari e neanche quella di sostenere economicamente Kiev? Come può, sull’immigrazione, promettere interventi se non ha gli strumenti di base?
Può però l’Unione esercitare un ruolo diverso, che gli esperti definiscono “soft power”, che ha la sua forza anche nel non essere espressione della potenza (o pretesa tale) di un singolo Paese, ma bensì rappresentanza di una sponda politica e commerciale che invece esiste, e con pazienza, goccia a goccia, implementare le politiche sulle quali si è espresso un consenso. L’esempio di Serbia e Kosovo (che forse ha acquisto un’importanza eccessiva rispetto alla reale misure del problema) è un caso nel quale giorno per giorno il lavoro degli uomini del Servizio esterno e delle varie missioni europee sta portando a casa un risultato. Anche nel Medio oriente l’Unione (che sta per nominare un suo nuovo Rappresentate speciale e si sussurra possa essere italiano) questo è il lavoro che deve fare: esser presente, radicarsi, farsi punto di riferimento. Non può risolvere la crisi, in Israele e Palestina non c’è riuscito nessuno governo mondiale dal 1948 in poi. In Libia, in Egitto, può offrirsi come mediatore, non come risolutore, nessuno può esserlo, ma ad esempio in Tunisia la presenza degli uomini di Bruxelles sta aiutando a ricostruire uno stato di diritto.