L’Italia non è un Paese per donne. In base all’Indice europeo dell’uguaglianza di genere, l’Italia si classifica fra i paesi dell’Ue con la minore uguaglianza di genere. La sua performance è superiore alla media UE in un solo settore, quella della salute, grazie alla longevità delle donne italiane. “In tutti gli altri campi la situazione è lungi dall’essere soddisfacente”. E’ il risultato dell’analisi approfondita su “La politica sull’uguaglianza di genere in Italia”, redatto per la commissione Diritti delle donne del Parlamento europeo. Lo studio non è di fresca pubblicazione, ma è uscito quando si insediava il governo Renzi e rappresenta dunque una sfida per l’attuale esecutivo e, probabilmente, anche per quelli successivi. Perchè, rileva lo studio, “all’Italia manca un’adeguata infrastruttura di genere a livello centrale per promuovere, coordinare e monitorare le iniziative a favore dell’uguaglianza di genere”. Ma non è che una delle criticità del sistema Italia, di cui lo speciale rapporto realizza una mappatura.
Legislazione. Le politiche per affrontare lo squilibrio di genere “sono state caute” e i progressi in ambito giuridico sono stati promossi “principalmente da direttive provenienti dall’UE o dalle pressioni esercitate dalla società civile”. L’organo governativo incaricato dell’uguaglianza di genere è il ministero per le Pari opportunità, creato solo creato nel 1997 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Ma, si rilevam è stato diretto da ministri senza portafoglio, specificamente nominati per questo compito, da ministri che ricoprivano contemporaneamente altri incarichi (lavoro, welfare) o da alti funzionari governativi (sottosegretari), come nel governo attuale. “L’azione del ministro è sempre stata compromessa dalla mancanza di risorse, da brevi mandati (9 ministri in 18 anni) e talvolta anche dalla mancanza di esperienza nelle questioni di genere”. Inoltre l’importanza della disuguaglianza di genere a fronte di altre discriminazioni è stata interpretata da ciascun ministro in maniera diversa.
Partecipazione politica. La ridotta partecipazione delle donne italiane alla vita politica caratterizza la storia della Repubblica. La partecipazione delle donne alla vita pubblica non è ben definita in Italia e la loro presenza nella politica nazionale non è supportata da un sistema di quote di genere, anche se tali meccanismi. I partiti possono introdurre quote volontarie, “ma non si tratta di una pratica affermata o diffusa”. L’unica sanzione attualmente prevista a livello nazionale (applicabile alle elezioni politiche, regionali ed europee) è quella stabilita dalla legge 96/2012, che diminuisce del 5% i contributi pubblici ai partiti nelle cui liste i candidati dello stesso sesso siano presenti in proporzione superiore ai 2/3 del totale. Per i realizzatori dello studio tuttavia “è opportuno osservare che i contributi pubblici ai partiti sono stati notevolmente ridotti di recente e dovrebbero essere eliminati del tutto entro il 2017”.
Lavoro. Il tassi d’occupazione femminile resta bassi, soprattutto nel Sud Italia e, in generale, per le donne con basso livello di istruzione. Le leggi anti-discriminazione sono state adottate, ma i divari di genere “sono ancora elevati”. L’avanzamento di carriera “è difficile”, e le donne sono sovra rappresentate in lavori atipici e precari. Una situazione frutto dell’assenza di politiche specifiche, dato che “l’Italia non ha mai elaborato una strategia efficace per favorire l’inclusione delle donne nel mercato del lavoro”. La legge sulla conciliazione del tempo di vita e di lavoro (ora inclusa nella legge 198/2006) per gli orari flessibili di lavoro “ha trovato attuazione raramente, data la scarsità di fondi e di incentivi per i datori di lavoro”. Soltanto 6 regioni su 20 hanno presentato progetti per un’organizzazione flessibile del lavoro.
Maternità. La maternità è tutelata, ma solo sulla carta. Nonostante l’Italia vanti uno dei congedi di maternità obbligatori più lunghi dell’Ue (22 settimane) tuttavia in un contesto produttivo come quello italiano, dove il 95% delle aziende occupa meno di 10 impiegati, i datori di lavoro che temono lunghe assenze delle lavoratrici ricorrono talvolta alla pratica illegale che consiste nel far firmare alle giovani donne una lettera di dimissioni, senza data, da utilizzare per giustificarne il licenziamento in caso di gravidanza. Sarebbero già 800.000 le madri (che lavorano attualmente o che hanno lavorato in passato) a cui è stato chiesto, nel corso della loro vita lavorativa, di accettare tale pratica. Per contrastare questo fenomeno. Per contrastare questo fenomeno, è stata introdotta nel 2007 la legge n. 188, abrogata pochi mesi dopo dal neoeletto governo Berlusconi e “parzialmente reintrodotta nel 2012, senza risultati significativi”. Attualmente, tale legge è nuovamente al vaglio del parlamento.
Pensioni. La riforma del sistema pensionistico ha innalzato l’età pensionabile a 66 anni per tutti, uomini e donne, sia nel settore pubblico che in quello privato. Tuttavia, non sono state previste disposizioni per riequilibrare le “enormi” disparità che esistono in termini di reddito tra uomini e donne in pensione. La pensione media percepita da una donna con più di 65 anni ammonta, persino attualmente, al 69% circa di quella di un uomo della stessa età. Con un calcolo dell’importo della pensione basato esclusivamente sui contributi versati dai lavoratori, il divario “potrebbe assumere proporzioni drammatiche, data la sovra rappresentazione delle donne negli impieghi precari e le numerose interruzioni lavorative nel corso della loro vita professionale”.
Salute. In Italia l’approccio generale prevalente alla salute delle donne è ancora circoscritto nell’ambito della ginecologia e della salute riproduttiva. In particolare, continua a mancare una strategia globale dal punto di vista della salute che accompagni l’invecchiamento delle donne. Sebbene la legge 194/1978 riconosca l’interruzione volontaria, la stessa consente anche l’obiezione di coscienza del personale che pratica interventi ginecologici. L’elevata percentuale degli obiettori di coscienza è un fattore che “ostacola fortemente l’attuazione della legge”. Per le donne italiane, poi, il protocollo seguito per l’assunzione della pillola è diverso da quello raccomandato dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms): in Italia la pillola deve essere assunta durante le prime sette settimane di amenorrea, mentre l’Oms la raccomanda per le prime nove settimane di gestazione e prevede il ricovero nel periodo compreso tra l’assunzione del farmaco e l’espulsione del feto. Per l’Italia è poi “fonte di preoccupazione” l’elevata incidenza di parti cesarei sul totale e rispetto agli altri paesi avanzati. Nel 2011 si sono registrati 377 parti cesarei su mille. A tal proposito lo studio sottolinea che “è stato evidenziato che ciò è il risultato di comportamenti opportun istici da parte delle ASL, le quali ottengono un rimborso più elevato optando per una medicalizzazione del parto”.
Protezione sociale. La violenza sessuale è stata riconosciuta “reato contro la persona” solo nel 1996. La mutilazione genitale femminile è stata vietata da una legge ad hoc nel 2006. Sempre nel 2006 è stato istituito un numero di pubblica utilità per le vittime di violenza: si tratta del 1522, un numero verde disponibile 24 ore su 24. Ad oggi (2014), tuttavia, “vi sono ancora molte aree del paese che non sono coperte dal servizio”. Il 28 ottobre 2010 è stato adottato il primo Piano nazionale contro la violenza di genere e lo stalking, ma in questo caso “il problema principale” risiede nell’attuazione della legge in termini di formazione adeguata delle forze di polizia, di creazione di centri di supporto e di accoglienza per le vittime di violenze. Non solo. Per gli autori dello studi “va rilevato che la legislazione sulla violenza contro le donne non è frutto di un dibattito pubblico aperto e di un approccio culturale condiviso, ma si iscrive piuttosto nel quadro di una serie di riforme finalizzate sin dal principio a salvaguardare l’ordine pubblico”. Ancora, il Piano nazionale contro la violenza di genere approvato nel 2011 “rappresenta un’occasione mancata”, in quanto “è stato elaborato “senza consultare le parti interessate, non presenta obiettivi chiari e non beneficia di un finanziamento adeguato da parte del governo centrale”, anche a causa degli ingenti tagli apportati alla spesa pubblica italiana.