Héloïse Romani intervista Fabio Ciriachi sul suo ultimo “romanzo a racconti” Uomini che si voltano. Del libro, presente l’autore, parlerà Lorenzo Robustelli a Bruxelles lunedì 23 febbraio, alle 18, presso La Piola Libri, 66 rue Franklin.
D – Uomini che si voltano è il tuo quinto libro di narrativa. A parte i racconti di Azzurro-cielo e verde-pistacchio (Edimond, 2008), gli altri quattro sono romanzi. In una bella recensione apparsa sul numero 7 di FuoriAsse, Claudio Morandini, parlando de Le condizioni della luce (Gaffi, 2013), ipotizza che possa concludere una trilogia rivolta a fare i conti con il passato: con gli anni Ottanta Le condizioni della luce, appunto; con i Settanta, Soprassotto (Palomar, 2008); e con la cerniera 50/60 L’eroe del giorno (Gaffi, 2010). Ora esce questo Uomini che si voltano (Coazinzola Press, 2014) che già nel titolo allude a un guardarsi indietro. Allora, vista la precisa evocazione del passato, la prima cosa che ti chiederei è proprio questa: possiamo considerare Uomini che si voltano come il quarto elemento di una tetralogia?
R – Bella domanda! E davvero me la sono cercata, perché sì, titolare in questo modo il mio ultimo “romanzo a racconti” porta quasi d’ufficio a una conclusione del genere. Del resto il titolo, rubato a un bellissimo, e tragico, quadro di Scipione (c’è di mezzo anche Montale con la sua poesia “Gli uomini che si voltano”) era irrinunciabile per tante ragioni che chiarirò più avanti. Ma procediamo con ordine. Ammetto che sia difficile non prendere in considerazione la tetralogia anche perché, casualmente, sia il più lungo dei racconti che formano il romanzo, “Riflessi dalla camera vuota (Diario del 1990)”, sia altri principali, trattano proprio degli anni Novanta. Capisco che di fronte a questa ammissione, sembrerebbe non esserci altro da aggiungere, e invece…
D – Già, invece?
R – Invece Uomini che si voltano è un racconto ben più permeato di presente di quanto non lo siano, ad esempio, vuoi il romanzo concluso lo scorso anno, che pure copre un arco di tempo teso fra la metà del 2011 e gli inizi del 2013, vuoi quello in corso di lavorazione, che abita immobile un presente di fluida surplace collocabile in un “ovunque qualsiasi” dell’oggi. Perché dico questo? Perché la temperatura emotiva dei protagonisti, il trattamento della pagina, la frammentarietà delle tranche de vie che si materializzano sotto gli occhi del lettore, la slogatura irrimediabile tra l’una e l’altra di queste tranche, la stessa capacità testimoniale delle vicende narrate, che sembrerebbe rinviare di continuo a precisi passati più o meno remoti, nel loro insieme finiscono per essere, in realtà, spie fedeli di una condizione polifonica che è il ritratto più verosimile del presente.
D – Fammi capire; intendi che gli occhiali attraverso cui leggi tutto il passato di Uomini che si voltano (in effetti si va dal ’69 del primo racconto “Un poeta all’inferno” ai primi anni del Duemila del racconto conclusivo “Chiudere il cerchio”) esprimono il presente in virtù della lingua con cui narri? E che in un narrare apparentemente rivolto al passato sussisterebbe, per sole virtù stilistiche, un preciso referto dell’oggi?
R – Esattamente questo; lingua, stile, ma anche architetture interne alla forma, in particolare laddove più rischiosamente, questa, confina col suono; con certe sue leggi, almeno, che differiscono da quelle più note e condivise della musica… perché vedi, sono queste latitudini della lingua che bisogna interrogare quando ci si pone davanti a un testo; vanno prese in considerazione gamme di sfumature poco apparenti ma ricche d’informazioni che di solito periscono sotto i tagli di scure dei cultori della trama, lettori o critici che siano; anche se a determinare questa insana dipendenza sono soprattutto gli editori che sperano nella traduzione cinematografica delle storie da loro edite; con ciò inducendo una notevole quantità di scrittori senza spina dorsale etica a cercare il successo in quella direzione (vedi i tanti romanzi-sceneggiatura che circolano), anziché nel lavoro che porti alla luce le grandi potenzialità inespresse proprie di ogni lingua.
D – A me Uomini che si voltano è parso una notevole testimonianza sullo spirito di un certo tempo… La delicatezza del primo racconto, ad esempio, così al servizio dell’amico “mite” di cui traccia, in poche pagine, un indelebile ritratto…
R – Scusa se t’interrompo. È vero quanto dici di quel racconto d’apertura e, immagino, anche quanto potresti dire, con analoghi intenti, attorno a ciascuno degli altri racconti, ma bisogna fare attenzione a non credere solo al primo velo con cui il quadro si mostra; anzi, di solito il primo che appare è un po’ come la falsa pista tracciata dallo scrittore di gialli per sviare i sospetti del lettore. Se la si interroga, una scrittura ricca dovrebbe dispensare un po’ alla volta le sue qualità (da qui, spesso, il bisogno di rileggere); ma se la scrittura è mero servizio di un plot ruffiano (pardon, avvincente) darà solo ciò che appare e basta. Il sistema più semplice per testarne la qualità è leggere il testo ad alta voce: lì suono, ritmo, credibilità (che vuol dire le cose utili di cui la sua lingua è carica) formano un insieme “sonoro” che mentre fa i conti col fiato della dizione svela la consistenza delle parole che lo formano. Il fiato è respiro, quindi vita, e sappiamo che in essa esiste una misura che la rende possibile e necessaria; quella misura, va da sé, ammette ciò che le è fondamentale e respinge ciò che le nuoce, su questo non ci sono dubbi. Fidiamoci, allora della dicibilità di un testo… E poi, scusa, perché altrimenti tanti capolavori sarebbero ascrivibili al mondo antico se non fosse che allora i testi venivano elaborati e tramandati oralmente? Quelle parole dette avevano la verifica sia di chi le ascoltava sia di chi, dicendole, si ascoltava. Se ci pensi era un’esperienza irripetibile di sé e dell’altro contemporaneamente. Con la stampa i due momenti si sono sempre più allontanati fra loro fino a scomporsi in qualcosa che era, ed è, sempre meno della metà dell’insieme originario.
D – Ti riporto sulla terra. Capisco l’entusiasmo autoriale però devi capire che la maggior parte dei lettori non si cura di questo. Io, ad esempio, che pure ho una notevole confidenza col leggere, vuoi per ragioni di studio vuoi per impiego del tempo libero, non arrivo neanche in vista della più semplice delle tue osservazioni. Mi sono formata sui grandi classici e mi sono concessa sempre con una certa cautela alle sirene del contemporaneo. Di Uomini che si voltano amo la sincerità che traspare ovunque e che, anche quando confina con l’ingenuità, non smette mai di essere credibile, come ad esempio accade per il tempo ambiguo in cui si svolge una delle tranche più belle, “Esercizi di osservazione”, con quel suo continuo oscillare tra passato e futuro, tra storia (ovvero, smemoratezza del presente) e fantastoria…
R – Ti ringrazio, sarò uno scrittore all’antica ma la sincerità a cui alludi – che non è quella elementare del dire la verità, ma quella, matura, del concepire specchi capaci di riflettere verità possibili, e comunque di sollevare in chi legge il problema della verità – è un valore a cui tengo, e vederlo riconosciuto mi fa piacere. Permettimi ancora un accenno alla polifonia: in Uomini che si voltano è assordante proprio come quella dell’oggi, ovvero di un tempo in forte difficoltà con se stesso che vuole ricordare tutte le voci passate per essere sicuro di loro, per cercare, oltre i frasari già stati, qualcosa che lo avvicini alla propria voce, di certo non netta e chiara come furono le altre; per questo il presente continua a cercarne l’esempio, e appena può le fa risuonare tutte assieme, tutte sue figlie che rinascono di continuo fino a un’infanzia che si compie e ricomincia daccapo, si compie e ricomincia daccapo, senza sosta. Ebbene, secondo te, tutte queste crescite mancate, non sono forse i tentativi di un’età? E a pensarci bene, non è Uomini che si voltano, con le tante storie di amore infelice cui dà vita, un romanzo su miseria e grandezza del tentare (lo dico anche in senso demoniaco)?
D – Eludo la domanda perché l’accordo era che fossi io a farne. E chiudo con un’ultima. Avevi fatto cenno, all’inizio, all’irrinunciabilità del titolo, avevi detto che ne avresti spiegato più tardi le ragioni. Be’, è tardi. E allora?
R – Hai ragione. Il motivo è semplice: un romanzo molto simile a Uomini che si voltano è quello che il protagonista di “Riflessi dalla camera vuota (diario del 1990)” comincia a scrivere nel corso del suo eremitaggio. In effetti anch’io, proprio in quel periodo, e proprio in una situazione da eremita, avevo cominciato a scrivere un romanzo con lo stesso titolo. Anzi, e qui sveliamo l’aspetto meta-romanzesco di Uomini che si voltano, due racconti notevoli come “Diavola” e “Il maestro e Silvia” (in cui l’io narrante si mette in vendita come capitale sociale di una SpA, anticipando con ciò la finanziarizzazione dell’economia che caratterizza la grande crisi) , i due racconti, dicevo, provengono proprio, con le opportune modifiche, dal corpo di quel romanzo. Il protagonista del racconto “Riflessi dalla camera vuota” – che va in collina con intenti non proprio edificanti, se si porta dietro, fra l’altro, il diario di Jules Renard Per non scrivere un romanzo – alla fine, per continui corto-circuito fra vita e opera rinuncia al suo progetto. Io invece, a conferma che la realtà trionfa sempre sulle sue rappresentazioni, quel romanzo così titolato l’ho finito e fatto girare. Con esiti nulli, d’accordo. Ma anche il titolo della mia prima raccolta di poesie (rimasta pervicacemente inedita), L’eroe del giorno, ha poi trovato accoglienza nel romanzo sulla cerniera degli anni 50/60 edito da Gaffi nel 2010. È un po’ come chiudere cerchi in ritardo, o almeno avere l’illusione di farlo, perché a pensarci bene sia Uomini che si voltano che L’eroe del giorno hanno finito per identificare altro da quello per cui erano nati.
Lo scarto fra scrittura e libro per me è ormai insanabile; ho cominciato a lavorare seriamente con un ritardo di vent’anni sulla mia generazione, e questo l’ambiente continua a non perdonarmelo. L’anacronismo è mal visto dagli addetti ai lavori, e inoltre su un over seventhy non scommette nessuno. Se alla sua età non ha ancora avuto successo, è il ragionamento diffuso che vedo aleggiare su di me, ci sarà pure una ragione. Come non essere d’accordo? Per questo, a quasi settantuno anni, per vicende di cui un giorno farò documentato resoconto, mi sono ritrovato di colpo senza editore e con zero probabilità di trovarne. Disperazione? Sì, ma fino a un certo punto. Grazie ai numerosi fallimenti in campo editoriale, caratteristici dei miei decennali esordi, ho imparato a tenere rigorosamente separate l’impossibilità di pubblicare dalla libertà di scrivere. Ed è da vecchio scrittore senza fissa dimora, infelice ma attivo, che ho avuto la fortuna di trovare un editore neonato e di notevole attenzione critica (perché poeta in proprio e grande traduttore dall’inglese) quale Riccardo Duranti (ricordo il suo impegnativo lavoro, per Einaudi, sulla resa in italiano del Carver originale, quello ancora non trasformato in “maestro del minimalismo” dalle pesanti amputazioni dell’editor Gordon Lish) che con la sua Coazinzola Press, arroccata fra le colline della Sabina, non solo mi ha ospitato come un figlio-padre-fratello, ma ha avuto la sensibilità di cogliere che nei racconti sparsi, di cui pure aveva già deciso la pubblicazione, si celavano in realtà evidenti tracce di un romanzo per frammenti. In neanche un mese, durante cinque correzione di bozze, io a Bruxelles, lui nel Casale delle Coazinzole, grazie a quella sua indicazione ha preso vita il “romanzo a racconti” Uomini che si voltano e le singole parti che lo compongono, già figlie di insiemi scollegati fra loro e destinati all’oblio, hanno trovato posto in un nuovo insieme che ha restituito loro dignità narrativa e identità. E scusate se, in controtendenza col gusto corrente, questa vicenda, come si dice, ha cominciato miracolosamente a finire bene.