La battaglia in corso sul debito greco non riguarda solo la Grecia. Riguarda tutti noi europei. Non solo per le conseguenze potenzialmente devastanti di un mancato accordo – a quel punto il rischio di una fuoriuscita della Grecia dall’euro si farebbe pericolosamente concreto – ma perché dall’esito di questa battaglia capiremo se esiste qualche speranza di trasformare l’Unione dal suo interno o se invece l’ordine politico-economico europeo sia destinato inevitabilmente a essere spazzato via, per la terza volta in un secolo, dai venti dell’autoritarismo tedesco, del nazionalismo, della depressione economica e del populismo.
Non a caso persino Obama è intervenuto di recente sull’argomento in un’intervista rilasciata a Fareed Zakaria della Cnn. Pieno sostegno da parte del presidente americano alle richieste di rinegoziazione del debito e di revisione dei programmi di austerità di Tsipras. “Non si può continuare a spremere paesi che sono in profonda depressione. Ad un certo punto deve esserci una strategia di crescita, per permettere loro di rimborsare i debiti ed eliminare parte dei loro deficit”, ha detto Obama. Il presidente Usa ha riconosciuto che la Grecia aveva un “disperato bisogno” di riforme, ma che “è molto difficile avviare questi cambiamenti, se il tenore di vita della gente è sceso del 25 per cento. Alla lunga il sistema politico, la società non possono sopportarlo”. Obama ha detto di auspicare che la Grecia resti nella zona euro, ma che ci vorrebbe un “compromesso da tutte le parti”.
Secondo un appello sottoscritto da venti economisti di fama mondiale, tra cui i premi Nobel Joseph Stiglitz e Chris Pissarides, questa “strategia di crescita” passa necessariamente per una riduzione del debito. “Solo tale riduzione permetterà al paese di sviluppare la propria economia e di contribuire al rafforzamento di un’Europa unita e democratica”, si legge nell’appello. Un altro appello, sottoscritto da decine di economisti e apparso invece sul Guardian, invita la troika ad aprire “un negoziato onesto con il governo greco tale da eliminare larga parte del debito attuale e introducendo condizioni di rientro che consentano la ricostruzione di un’economia sostenibile”.
È sorprendente il consenso che in questi mesi Tsipras – che le alle ultime elezioni greche, nel 2012, l’establishment politico-mediatico europeo era riuscito con successo ad etichettare come un “pericoloso estremista” e “una minaccia per la sopravvivenza dell’Europa”, decretando la marginalizzazione e la sconfitta di Syriza – è riuscito a costruire intorno al suo programma per cambiare la Grecia e l’Ue, anche a livello mainstream. Grazie in parte anche all’“estremismo di centro” che ha preso piede in Europa. Come ha scritto Wolfgang Münchau in un recente editoriale sul Financial Times, sono proprio i grandi partiti europei di centro-sinistra e di centro-destra che stanno permettendo “la deriva dell’Europa verso l’equivalente economico di un inverno nucleare”, mentre gli unici partiti del continente che propongono ciò che è il “consenso” tra gli economisti per risolvere la crisi dell’area euro senza spaccarlo – ossia grandi investimenti pubblici e una ristrutturazione controllata dei debiti – sono proprio i “pericolosi” partiti della sinistra radicale, capeggiati da Syriza.
Un consenso che si fa ogni giorno più diffuso, a partire dalla necessità di una massiccia ristrutturazione del debito greco. Scrive Paul De Grauwe: “L’Unione europea ha costretto la Grecia a prendersi in carico un debito enorme e a implementare brutali misure di austerità solo per salvare le banche del Nord Europa, che avevano prestato grandi quantità di denaro al paese, in maniera del tutto scellerata. Lo scopo di queste politiche è uno solo: salvaguardare gli interessi dei creditori, trasferendo risorse dalla Grecia e dagli altri paesi della periferia verso i paesi ricchi del Nord. Ma è una strada insostenibile oltre che immorale: se i leader dell’eurozona non accettano di alleviare il debito della Grecia e degli altri paesi e di porre fine all’immiserimento di massa provocato dalle politiche attuali una crisi dell’eurozona è inevitabile”.
La pensa così anche Philippe Legrain, ex consulente di Barroso: “Non è una questione di destra o sinistra. Syriza ha tutto il diritto di chiedere la cancellazione di una parte del debito: con la scusa della solidarietà, la Germania e gli altri paesi dell’eurozona hanno ridotto la Grecia in miseria per salvare i creditori. E comunque non è solo una questione di giustizia ma di necessità economica e politica: anche in base agli scenari più ottimistici, è assolutamente impossibile che la Grecia possa ripagare un debito di quelle dimensioni”. Della stessa opinione è Martin Wolf, capo economista del Financial Times: “I creditori hanno l’obbligo di effettuare i loro prestiti in maniera responsabile e se non lo fanno è giusto che paghino. Nel caso della Grecia questo non è avvenuto: i fondi della troika non sono usati per salvare i cittadini greci ma per evitare perdite a chi aveva esteso prestiti irresponsabili al governo greco e alle banche greche. Sarebbe stato più onesto salvare direttamente i creditori ma questo sarebbe stato troppo imbarazzante. Ad ogni modo vale sempre la vecchia regola: ciò che non può essere ripagato non sarà ripagato. Pensare che i greci saranno disposti a perseguire ampi avanzi fiscali per un’intera generazione solo per ripagare i creditori è pura follia”.
Il problema, però, non è solo economico ma anche e forse soprattutto politico, fa notare Legrain: “La Merkel avrebbe molte difficoltà a far digerire una ristrutturazione del debito ai propri elettori perché questi non provano alcuna solidarietà nei confronti dei greci, che pensano di aver già abbondantemente aiutato. E poi Berlino ha paura di creare un precedente che potrebbe incoraggiare altri paesi, a partire dall’Irlanda, a chiedere una rinegoziazione del debito che l’Ue gli ha imposto per salvare le banche”. Anche Martin Wolf è scettico sulle chance che Berlino possa venire incontro a Tsipras: “A volte la cosa giusta da fare è anche la più saggia. Questo è uno di quei casi: una riduzione del debito, infatti, beneficerebbe non solo la Grecia ma tutta l’eurozona. Purtroppo temo che raggiungere un accordo si rivelerà impossibile”.
Eppure, come sottolineano in tanti, proprio la Germania dovrebbe ricordarsi meglio di chiunque altro cosa succede quando i creditori insistono sul rimborso del debito a tutti i costi, senza tenere conto delle conseguenze economiche e politiche delle loro decisioni. Nel 1920 un giovane Keynes, in merito alle riparazioni follemente punitive imposte alla Germania con il trattato di Versailles, scriveva: “La politica di ridurre la Germania alla servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani, e di privare della felicità un’intera nazione dovrebbe essere considerata ripugnante e detestabile… anche se non fosse il seme dello sfacelo dell´intera vita civile dell’Europa”. Sappiamo bene come è andata a finire. “Dire oggi ai paesi del Sud Europa che devono ripagare tutti i loro debiti, fino all’ultimo centesimo e con l’inflazione a zero, rappresenta un incredibile atto di amnesia storica da parte della Germania”, dice Thomas Piketty.
In un libro appena pubblicato, anche l’ex ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer invita i propri concittadini ad evitare troppo facili amnesie visto il trattamento di favore riservato alla Germania nel 1953, quando il paese fu prossima al suo secondo default dopo quello del 1923. In quella occasione, in una conferenza tenuta a Londra, alla malandata nazione tedesca vennero in parte condonati gli enormi debiti accumulati in entrambe le guerre: 23 miliardi di dollari dell’epoca, pari alla quasi totalità del Pil tedesco. Il debito venne dimezzato e dilazionato in trent’anni, e la Germania riuscì ad evitare un default che era già certificato. Il debito è stato poi estinto nel 2010. L’altra tranche sarebbe dovuta essere liquidata dopo la riunificazione, ma l’allora cancelliere Helmut Kohl si oppose perché ciò avrebbe provocato un nuovo default; ebbene, proprio l’Italia e la Grecia rinunciarono alla seconda trance di rimborso del debito che la Germania avrebbe dovuto pagare per altri cinquant’anni.
Come scrive Jeffrey Sachs, non certo uno di sinistra: “I tedeschi sostengono che il rimborso del debito è un obbligo morale. Ma la Germania si “meritava” forse la cancellazione del debito o il piano Marshall, che offrì al paese enormi somme per far ripartire l’economia? No, ma ne aveva bisogno per potersi rimettere in piedi. La Grecia oggi si trova nella stessa situazione. Oggi come ieri, le strade sono due: o l’eurozona accetta di ristrutturare il debito greco o l’Europa esploderà ancora una volta”.
È la stessa drammatica conclusione a cui giunge Joseph Stiglitz: “Il problema non è la Grecia. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione popolare sarà inevitabile”. “Quello che serve non sono tanto riforme strutturali in Grecia e Spagna, quanto una riforma strutturale del progetto dell’eurozona e una radicale revisione dei quadri politici che hanno dato adito alla performance negativa dell’unione monetaria”, scrive in un altro articolo. “Se l’Europa ha permesso che questi debiti fossero trasferiti dal settore privato a quello pubblico – un modello consolidato nel corso dell’ultimo mezzo secolo – è l’Europa, non la Grecia, che dovrebbe sopportarne le conseguenze. Di fatto, l’attuale situazione della Grecia, compreso l’imponente aumento dell’indice di indebitamento, è perlopiù il frutto dei programmi sbagliati imposti dalla troika. Pertanto, non è la ristrutturazione del debito, bensì la sua assenza, a essere ‘immorale’”.
È proprio per questo che Paul Krugman invita Tsipras ad “ignorare i richiami ad essere responsabile”. “Ci saranno molti che lo ammoniranno ad abbandonare le sue promesse per comportarsi responsabilmente”, scrive l’economista americano, fortemente critico verso i paladini dell’austerità fiscale. “La verità è che il programma imposto dalla troika alla Grecia non ha mai avuto senso”, continua l’editorialista del New York Times. “Non aveva alcuna possibilità di funzionare perché si basava su una sorta di fantasia economica spacciata per una linea realistica di cui il popolo greco ha pagato il prezzo”.