di Giorgio Garbasso
La Commissione europea sta preparando l’ottavo round di negoziazioni sull’accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea (Ttip). La data è fissata tra il 2 e il 6 febbraio 2015. È da circa un anno che si parla di Ttip. L’accordo commerciale è stato fortemente sostenuto dalla maggior parte dei governi ed è stato altrettanto fortemente contestato dalla società civile. I nodi sui quali media, associazioni, think tank e ong si sono concentrati sono tre.
Innanzitutto, centro nevralgico del problema, è stato criticato il rischio dell’armonizzazione degli standard tra Stati Uniti e Unione europea. Gli esempi di una convergenza normativa indesiderata, ormai quasi sacralizzati dai media, sono la carne americana agli ormoni, gli Ogm, il pollo lavato al cloro, ecc. In secondo luogo, suscita preoccupazioni l’opacità delle negoziazioni. Infine, è stato accolto con preoccupazione il progetto di includere nelle negoziazioni un capitolo relativo alla protezione degli investimenti, che permetterebbe alle multinazionali di fare causa direttamente a uno stato tramite un tribunale istituito ad hoc.
I dibattiti si soffermano su certi aspetti piuttosto che su altri. Come una valanga una notizia ne trascina con sé un’altra e scendendo sempre più a valle ci si allontana dai problemi che restano a monte. Un aspetto del Ttip spesso sorvolato, sia perché richiede una valutazione tecnico-giuridica del problema sia perché dipende dall’incertezza che accompagna l’evoluzione delle negoziazioni, è la legittimità della cooperazione transatlantica sulle scelte politiche dei cittadini. Per comprenderlo è necessario fare un po’ di chiarezza sui fondamentali principi giuridici degli accordi commerciali di ultima generazione.
L’obiettivo del Ttip è quello di liberalizzare gli scambi, eliminando progressivamente le barriere non tariffarie (dato che le barriere tariffarie sono pressoché inesistenti), ossia livellare le disparità nelle norme, nei controlli e nelle certificazioni dei prodotti e dei servizi, al fine di favorire lo scambio di merci. Ma la verità è che l’armonizzazione delle regole può funzionare solo in certi casi. Facciamo un esempio. Nel settore dei prodotti chimici l’approccio normativo e il sistema di certificazione sono assolutamente incompatibili tra Stati Uniti e Unione Europea. L’Ue parte dal presupposto che ogni sostanza è tossica e richiede alle imprese di dimostrare che il nuovo prodotto che queste vogliono commercializzare non presenti rischi per la salute. Gli Stati Uniti pongono a carico dell’Environmental Protection Agency (Epa) l’onere della prova che un prodotto chimico rappresenti un rischio e finché questo rischio non è stabilito le imprese non sono tenute a fornire nessuna informazione. In questo settore l’Unione europea regola ex ante, facendo ricorso al principio di precauzione, gli Stati Uniti invece ex post.
L’armonizzazione in questo campo appare semplicemente impossibile. Cosa fare quindi? Si ammette che i due sistemi sono diversi ma che, pur nella differenza procedurale, in fin dei conti garantiscono lo stesso livello di protezione della salute dei consumatori e dunque si considerano equivalenti. Insomma, troppo difficile mettersi d’accordo sui parametri? Bene, allora mettiamoci d’accordo sugli obiettivi! Se il livello di protezione è ritenuto equivalente, ogni prodotto realizzato in un paese può essere esportato e commercializzato in un altro paese senza dover passare il vaglio da una seconda inutile e costosa certificazione. Questo principio di riconoscimento reciproco è uno strumento giuridico brevettato in Europa e utilizzato con successo nella costruzione del mercato unico.
Ricapitolando, la regola generale (troppo generale per essere sempre vera) è che nel Ttip, per ciò che riguarda le regolamentazioni già presenti, si preferisce procedere al riconoscimento reciproco (con un’armonizzazione minima solo quando possibile), mentre per quelle future sarà privilegiata l’armonizzazione. La caratteristica di questo accordo è proprio quella di essere dinamico, di poter essere modificato ed esteso con flessibilità a nuovi settori senza bisogno di rinegoziare il trattato. Ma è proprio su quello che i commentatori hanno chiamato un “living agreement” (un “accordo vivente”) che sorge un duplice problema.
Per armonizzare le norme è indispensabile che le autorità di regolamentazione americane ed europee non lavorino separatamente ma insieme, in una reale collaborazione. In modo informale, già da decenni esistono diversi network di cooperazione transatlantica che si propongono questo obiettivo. Il Ttip, con ogni probabilità, implicherà un’innovazione istituzionale, con la creazione di un vero e proprio laboratorio transatlantico di cooperazione. Queste piattaforme transnazionali sono il luogo e l’occasione per i regolatori di lavorare e discutere insieme se le risposte regolamentari a uno stesso problema e le misure adottate siano compatibili tra loro. Ma c’è un rischio. Questa piattaforma transnazionale di cooperazione tra regolatori fa sì che progressivamente i regolatori europei possano scegliere le proprie politiche non più e non solo in base alle preferenze dei propri cittadini ma secondo le opzioni politiche della controparte americana (e viceversa). Questo rischio di osmosi regolamentare rende impellente la domanda sulla legittimità democratica e sul rispetto delle nostre scelte politiche.
È quindi importante essere consapevoli del rischio di tale sistema tecnocratico di cooperazione transnazionale. Il Ttip è un “living agreement” e non si conclude certo con una firma. Una volta fissati i parametri iniziali, assume una vita propria. Se da una parte ciò permette di renderlo più flessibile e meglio adattabile al mondo in continua evoluzione, ad esempio nel settore delle tecnologie e della comunicazione, dall’altra è come se stessimo infiocchettando un pacchetto senza sapere esattamente che cosa c’è dentro. È un chiavistello che apre più porte di quelle che possiamo per adesso vedere.