Questa è la settimana della Grecia. Il trionfo di Alexis Tsipras rimette in discussione il dogma tedesco che è stato al centro delle politiche economiche europee negli ultimi cinque anni: quello dell’austerità, costi quel che costi. Politiche che non hanno certo risolto il problema del debito pubblico in paesi come l’Italia e la Grecia, ma hanno creato disoccupazione e ridotto il reddito dei cittadini.
Poiché è un greco che ci ha ridato la speranza che l’Europa possa essere diversa da com’è stata negli ultimi anni, ci sembra giusto, per parlare del futuro dell’Europa, iniziare dal passato, dal pensiero di un greco di altri tempi, Eraclito, e da un suo famoso frammento. “Chi non spera l’insperabile non lo troverà, poiché esso è inesplorabile e inaccessibile”. La speranza, sembra dirci Eraclito, non è un sostantivo, una dimensione astratta, ma si può solo riferire a un individuo: solo chi spera può essere in grado di immaginare un futuro diverso, un futuro che mentre spera può solo immaginare.
La speranza, una delle tre virtù teologali, può solo essere un atto della nostra mente, della nostra anima. Quando camminiamo compiamo un atto fisico che diamo per scontato. Quando speriamo, compiamo un atto simile, anche se esso non è visibile, ma è altrettanto sano per la nostra salute quanto il camminare. E come il camminare, la speranza è un atto che si compie quando si è svegli, non quando si dorme. E se uno è sveglio, come lo è Alexis Tsipras, deve quasi naturalmente porsi domande radicali che riguardano il futuro del proprio paese e della comunità di cui fa parte.
Come sapeva bene un grande filosofo tedesco del secolo scorso, Edmund Husserl, ben cosciente che erano stati i greci per primi ad aprire questa strada, le persone sveglie riflettono sul senso e le modalità dell’esperienza vissuta, e l’articolano in una serie di atti colti coscientemente dalla nostra mente e che diventano quindi per noi dei “fenomeni”, parola di origine greca, phainómenon, e che significa ciò che è manifesto e pertanto osservabile. Attraverso l’indagine e la riflessione su questi fenomeni si interpreta la realtà, anzi la si costruisce. E proprio Husserl cita in una sua opera, La crisi delle scienze europee, un altro frammento di Eraclito: “Per quanto tu andassi, per quanto ogni strada tu percorressi, non potresti scoprire i confini dell’anima: tanto profondo è il suo fondo”.
E come facciamo a giudicare il senso di un atto – e una politica economica è anch’essa un atto – se non la mettiamo a confronto con altri atti, altri fenomeni? Sperare non significa illudersi o fantasticare. Per cogliere bene il senso della speranza è necessario fare comparazioni tra fenomeni. E soprattutto riflettere sul passato, sul presente e sul futuro. Se uno vive a Roma e in un giorno piovoso dice “spero che domani sia bel tempo” non è un illuso, ma la speranza in questo caso è accompagnata da un atteggiamento ottimistico che però si basa su una ragionevole conoscenza pregressa.
Questa lunga digressione, che potrebbe sembrare inutile per commentare la vittoria di Tsipras, è invece, secondo noi, necessaria per riflettere sulla speranza che la vittoria del Davide greco sta suscitando in mezza Europa, soprattutto quella del sud: Italia, Francia, Grecia e Spagna (dove a fine anno si terranno le elezioni politiche e una vittoria di Podemos, possibilmente in alleanza con i socialisti, non è da escludere).
Diciamo subito che tutti i discorsi che si sono fatti nell’ultimo mese e che si stanno ancora facendo sul fatto che la Grecia possa uscire dall’euro sono, secondo noi, solo chiacchiere. Poiché non si può uscire dall’euro, secondo il Trattato di Lisbona, ma si può solo uscire dall’Unione europea, un’Europa senza la Grecia non è nemmeno immaginabile. La Grecia è l’Europa, una parte irrinunciabile della nostra identità di cittadini europei. È grazie alla Grecia che possiamo oggi immaginare che domani il tempo possa essere migliore di quello di oggi.
La vittoria di Tsipras offre una grande opportunità anche – o forse soprattutto – al nostro premier Matteo Renzi, il leader politico che ha ottenuto la percentuale più alta di voti alle elezioni europee dell’anno scorso, per ridiscutere non solo le politiche dell’eurozona, ma l’intera struttura della governance europea. Secondo noi, il primo passo è rimettere in discussione, costruttivamente, le regole sui bilanci degli stati introdotte nel 2011-12; regole fatte al buio, senza che vi fosse un’adeguata discussione pubblica, regole meccaniche, con sanzioni automatiche, il cui significato pieno era sfuggito alla totalità dei cittadini europei. Anche quelli più attenti ai processi decisionali in Europa hanno fatto fatica a comprendere il famoso patto che stabilì che i budget governativi dovessero essere in surplus o almeno in pareggio strutturale, patto che, ci dispiace ricordare, fu approvato dal Parlamento italiano nel 2012 con una larga maggioranza sia al Senato che alla Camera. Solo in Irlanda, ricordiamolo, fu fatto un dibattito pubblico e si tenne un referendum per approvarlo.
Naturalmente, finché sono in vigore, i patti vanno rispettati, ma non si può non tener conto che oggi in Europa si sta sviluppando una coscienza critica verso quei patti. Tutte le persone intellettualmente oneste non possono non ammettere che i risultati non sono stati brillanti. Anche i leader tedeschi farebbero bene a riconoscerlo, prima che sia troppo tardi. Non si può escludere a priori che in paesi come la Francia – dove il partito di estrema destra e antieuropeista di Marine Le Pen ha preso il maggior numero di voti alle europee – possa verificarsi un risultato alle prossime elezione presidenziali nel 2017 che sarebbe fatale per l’Europa.
Dopo la vittoria di Tsipras in Grecia, Renzi ha la forza politica per spingere Angela Merkel a riaprire il discorso sui Trattati, ma sarebbe meglio se fosse il leader tedesco a prendere l’iniziativa. Certo, una volta riaperto il discorso sui Trattati non sarà facile trovare un accordo che, secondo noi, dovrebbe andare oltre le discipline di bilancio e includere un fisco comune, una politica estera e di difesa comune, e una, anche se parziale, messa in comune dei debiti pubblici. Eppure tra il 2011 e il 2012 ci vollero solo sei mesi affinché 25 su 27 degli stati membri della Ue si mettessero d’accordo per un nuovo Trattato che, tra l’altro, è per ora solo un trattato internazionale e non è mai stato approvato dal Parlamento europeo, che anzi, con una mozione a larga maggioranza, si espresse contro.