di Francesco Saraceno, economista presso l’Observatoire français des conjonctures économiques (Ofce) e la Luiss School of European Political Economy
Twitter: @fsaraceno / Blog: fsaraceno.wordpress.com
La vittoria di Syriza in Grecia, domenica scorsa, era attesa e guardata con preoccupazione negli ambienti europei. Si tratta in effetti di un evento dirompente, dal punto di vista politico. Per la prima volta una campagna nazionale si è giocata quasi esclusivamente su temi europei, e per la prima volta nella campagna elettorale si sono autoinvitati leader stranieri. Per tutto il mese di gennaio siamo stati inondati da dichiarazioni di leader europei di diverso orientamento, che hanno esplicitamente preso posizione sulla competizione in atto. Tutto questo è positivo, perché ci fa capire a che punto i nostri destini sono oggi legati su scala europea.
Alexis Tsipras ha voluto ribadire, nella scelta del suo alleato di governo, qual è la sua priorità. L’alleanza di Syriza con il partito conservatore Anel, da cui lo divide tutto tranne la fiera opposizione al memorandum d’intesa che regge il programma della troika, mostra che sui due punti qualificanti del proprio programma – la fine dell’austerità e la rinegoziazione del debito – Tsipras vuole andare fino in fondo e con una coalizione di governo coesa; una prova di pragmatismo e di cinismo politico che conferma, caso mai ce ne fosse bisogno, che il governo Syriza dovrà essere preso sul serio.
Nonostante i commenti sulle elezioni greche fossero allarmati (più prima che dopo, a dire il vero; a riprova che la campagna elettorale si è giocata ben al di la delle frontiere greche), Syriza non è più il partito radicale degli inizi, che chiedeva l’uscita dall’euro e il default sul debito. Oggi si tratta di un partito a tendenza socialdemocratica il cui programma è difficilmente definibile rivoluzionario. Tsipras, man mano che le prospettive di vittoria si facevano più concrete, ha ulteriormente ammorbidito i toni e ha attivamente negoziato con la Commissione e con i maggiori paesi, anche prima di domenica scorsa, in vista di un compromesso sui punti qualificanti del programma di governo. Tuttavia, una parte della stampa e alcuni dirigenti politici continuano a presentare la vittoria di Syriza come l’inizio della fine per l’unione monetaria, a meno che il leader greco non diventi “responsabile”.
Ma vediamo quali sono i motivi di preoccupazione. Due sono i punti qualificanti del programma di Syriza. In primo luogo, Alexis Tsipras chiederà di rinegoziare una parte del debito greco, oggi in grandissima parte in mano di creditori ufficiali. Certo, questo significherebbe per i creditori una perdita da assorbire. Ma come notato anche dal Financial Times, è difficile immaginare un’uscita permanente dalla crisi che attanaglia l’Europa da sette anni se non si prevede di cancellare almeno una parte del debito che sta soffocando la ripresa. Anche il ministro delle finanze francese ha recentemente convenuto che un qualche compromesso andrà trovato. E con l’economia europea di nuovo in deflazione il costo, anche per i creditori, di una lunga stagnazione, sembra oggi ben più importante di una perdita associata alla ristrutturazione. Il secondo punto qualificante del programma di Syriza è l’abbandono su scala europea dell’austerità che, sia pure meno stringente che negli anni scorsi, continua ad orientare la politica economica europea. Syriza quindi chiede di affrontare il problema di un debito insostenibile, finora nascosto sotto al tappeto, e di prendere atto della necessità di un vasto piano di rilancio dell’economia europea, ben al di là dei giochi di prestigio del piano Juncker. Syriza può apparire radicale a qualche economista tedesco. Ma lo è in compagnia di altri notori estremisti come Paul De Grauwe, il Fondo monetario, il governo americano, e gran parte della stampa anglosassone: l’economia europea è sbilanciata e in trappola della liquidità, le armi di Draghi sono spuntate, e solo la politica fiscale sarà in grado di tirarci fuori dai guai.
A ben vedere sembra ben più radicale chi pur avendo sottostimato gli effetti negativi dell’austerità ne domanda ancora, chi si ostina a preconizzare (a destra come a sinistra) interventi sull’offerta per far fronte ad una carenza cronica di domanda, e chi si vanta di aver raggiunto il pareggio di bilancio con un anno di anticipo quando l’Europa intera beneficerebbe di un rilancio della domanda in Germania.
Insomma, Syriza è sì “radicale”, ma solo in senso relativo. Un programma keynesiano incentrato sul ruolo dello stato sociale nell’assorbire i colpi della crisi sarebbe stato considerato moderatamente socialdemocratico negli anni settanta. Appare oggi radicale a quella sinistra che a partire da Tony Blair non ha trovato altra risposta alle sfide della globalizzazione che non una lenta deriva verso il centro dello spettro politico, e verso ricette economiche virtualmente indistinguibili da quelle della destra.
Cosa succederà ora? In realtà non molto. Tsipras, confortato in questo dai sondaggi tra i suoi concittadini, non ritiene l’uscita dall’euro un’opzione. Si siederà quindi al tavolo negoziale per cercare di ottenere per il suo paese una ristrutturazione parziale del debito (le modalità al momento non sono note), e per l’Europa nel suo complesso un cambio di politica in senso più keynesiano. Se sul secondo dei due obiettivi è opportuno non farsi molte illusioni, la ristrutturazione con tutta probabilità avverrà. Primo perché come dicevamo sopra sembra essere un evento ineludibile che aspetta solo che siano riunite le condizioni politiche per verificarsi; e secondo perché la Grecia negozierà da posizioni di forza. Il suo avanzo di bilancio primario (al netto degli interessi sul debito), prova tra l’altro che i compiti a casa li ha fatti eccome, le consente di non temere un’eventuale sanzione dei mercati, a cui non sarebbe costretta a fare ricorso in caso di default forzato.
E a ben vedere l’uscita della Grecia dall’euro – che, ripetiamolo, Syriza non vuole – non conviene nemmeno ai suoi partner europei. Innanzitutto perché sarebbe accompagnata da default, e le perdite per i creditori sarebbero significativamente maggiori che in caso di ristrutturazione (parliamo di 240 miliardi, 40 per l’Italia, spalmati su circa 30 anni. Somme irrisorie dal punto di vista contabile, ingigantite solamente dalla confusione politica). Poi, probabilmente più importante, perché un’uscita della Grecia dall’euro avrebbe effetti di contagio imprevedibili sulle altre economie periferiche, che non a caso oggi guardano con preoccupazione ai toni ultimativi usati in particolare dal governo tedesco. Non è peraltro sfuggito ai più che dopo la vittoria di Syriza anche Angela Merkel si è fatta discreta. È difficile immaginare che l’ortodossia si spinga fino a spingere la Grecia fuori dall’euro. Certo, durante il negoziato ci saranno momenti difficili e tensioni, come ce ne sono stati in passato. Ma oggi la Bce ha un ruolo più attivo nel sostenere i paesi in difficoltà, e il suo programma Omt, che ha recentemente passato il vaglio preliminare della Corte di giustizia europea, costituisce una valida protezione contro eventuali attacchi speculativi. Il nervosismo tutto sommato limitato dei listini dimostra che certo, l’incertezza crea preoccupazione, ma i mercati non attendono nessun evento catastrofico nel futuro prossimo.
Insomma, la vittoria di Tsipras non creera un terremoto. Potrebbe anzi creare una dinamica positiva. Certo è difficile, perché la sinistra moderata ha, come si diceva sopra, un ritardo culturale prima ancora che politico. Ma se Tsipras riuscisse a scalfire la dottrina di Berlino le cose potrebbero cambiare. Renzi e Hollande, prima di essere eletti avevano un discorso simile al leader greco, salvo poi entrambi cambiare verso una volta arrivati al potere. Chissà se i sommovimenti provocati dalle elezioni greche riusciranno a riallineare i governi di Francia e Italia con le promesse elettorali finora disattese. In particolare, il presidente francese potrebbe recuperare centralità politica in Europa ponendosi come figura di sintesi e garante del cambiamento domandato da Syriza. Se così avverrà, al leader quarantenne di un piccolo paese sarà riuscito il miracolo di aver rivitalizzato il progetto europeo.