Le autorità monetarie svizzere hanno fatto ancora una volta un clamoroso voltafaccia giovedì scorso togliendo il tetto di 1.20 franchi svizzeri nei confronti dell’euro che avevano imposto a sorpresa a settembre del 2011, e facendo salire in negativo il tasso sui depositi da -0.25% a -0.75%. In pochi minuti, spettacolo inedito anche nei più spericolati mercati, il franco svizzero si è apprezzato del 40%, per poi stabilizzarsi intorno al 20%. Per capire il perché di questa nuova mossa a sorpresa – sembra che neanche Christine Lagarde, capo del Fondo monetario internazionale, fosse stata avvertita – bisogna partire da lontano.
La Svizzera è da sempre considerata un paradiso per gli investitori: un safe haven, un “rifugio sicuro”, forse il migliore del mondo per finanzieri, evasori, grandi capitalisti e politici corrotti. Oltre che, naturalmente, per le banche centrali di tutto il mondo, che tengono sempre una piccola parte delle loro riserve in franchi svizzeri poiché è una valuta che non delude mai, e neanche questa volta lo ha fatto.
Dopo la crisi finanziaria del 2008 una fetta, anche se non enorme, dei capitali globali in cerca di sicurezza, cominciò a dirigersi verso il franco svizzero, che subì in breve un apprezzamento micidiale. A luglio 2009 ci volevano 1.52 franchi svizzeri per comprare un euro; a luglio 2011 solo 1.18, un apprezzamento del 23%. A nulla erano valsi in questi due anni i massicci interventi sul mercato dei cambi da parte della Swiss National Bank (Snb), la banca centrale svizzera. Le riserve valutarie della Snb erano salite da 44 miliardi di dollari a 234. Poi nell’agosto 2011 le riserve ebbero un’impennata incredibile, aumentando in un solo mese di ben 83 miliardi.
Poiché, nonostante i massicci acquisti di valuta estera da parte della Snb, il franco svizzero continuava ad apprezzarsi, sotto pressione da parte delle imprese manifatturiere – la Svizzera è in termini relativi il più grande esportatore al mondo e il suo export rappresenta il 73% del Pil, di gran lunga superiore a quello tedesco (46%) e a quello cinese (27%), per non parlare poi di quello americano (14%) – le autorità svizzere fecero un incredibile voltafaccia, di segno opposto rispetto a quello di questi giorni, che prese tutti gli operatori e le altre banche centrali di sorpresa. Dapprima allentarono in modo tradizionale la politica monetaria tagliando i tassi di interesse, riducendo così il valore della loro valuta. Poi, il 26 settembre del 2011, spararono una cannonata che nessuno si sarebbe mai aspettato dagli svizzeri, imponendo un cap – cioè un tetto – sul franco svizzero, dicendo che non avrebbero consentito che esso scendesse sotto a 1.20 nel rapporto euro-franco. Cioè, da quel giorno in poi sarebbero stati necessari almeno 1.2 franchi svizzeri per acquistare un euro (ricordiamoci che due anni prima ne erano necessari 1.52).
Questa mossa prese tutti in contropiede, iniziando alla grande quella currency war oggi in corso tra le principali valute mondiali. Per poter far rispettare il tetto, la Snb si sarebbe impegnata ad acquistare euro in unlimited quantities: in altre parole si sarebbe impegnata ad acquistare sul foreign exchange market (più comunemente detto Forex) tutto quello che sarebbe stato necessario affinché il franco svizzero non si apprezzasse al di là della linea del Piave di 1.2 franchi svizzeri per euro.
Poiché fino a qualche settimana prima le autorità svizzere avevano ribadito che mai si sarebbero rimangiate la parola di essere fedeli alla libera circolazione dei capitali e al mantenimento di un tasso di cambio pienamente flessibile, i mercati rimasero sconvolti perché pensavano che gli svizzeri fossero di parola.
Per qualche mese le pressioni sul franco svizzero si attenuarono. Ma la speculazione valutaria riprese in modo pesante nell’estate del 2012. Alla fine dell’anno le riserve erano salite a 470 miliardi di dollari (erano solo 44 nel gennaio 2009). A questo punto le autorità monetarie svizzere, afflitte dalla stessa paranoia da inflazione di quelle tedesche, fecero, secondo noi, un errore: temendo che l’inflazione potesse esplodere, invece di continuare a fare acquisti di asset in euro e dollari stampando moneta – una forma di quantitative easing rivolta non agli asset in valuta locale, come hanno fatto gli Stati Uniti e il Regno Unito, ma a quelli di altri paesi – decisero di sterilizzare i propri interventi vendendo passività della banca centrale denominati in franchi svizzeri.
A questo punto i casi sono due: o i responsabili della Snb non sono così furbi come noi tutti abbiamo sempre pensato, oppure erano consapevoli che questa mossa avrebbe potuto esporli un giorno, qualora fossero stati costretti ad abbandonare il tetto, ad un capital loss di non poco conto, in termini della propria valuta, sulle loro riserve valutarie. Cosa che si è puntualmente verificata quando giovedì 15 gennaio le autorità svizzere hanno fatto un altro clamoroso voltafaccia e hanno tolto il cap, mandando di nuovo in tilt i mercati dopo che appena un mese fa Thomas Jordan, il presidente della Snb, aveva dichiarato in televisione che avrebbe difeso con la “massima determinazione” il tetto di 1.20, e il suo vice lunedì gennaio 12 aveva rassicurato che il tetto era infrangibile. Le perdite valutarie della Snb – anche se si potrebbe sostenere che sono perdite puramente contabili – sono ora stimate a circa 60 miliardi di euro, una cifra non indifferente neanche per la banca centrale svizzera le cui riserve a fine 2014 erano di circa 500 miliardi di dollari, anche se in parte la perdita potrebbe essere coperta dagli interessi negativi che chi ha depositi in Svizzera dovrà pagare, una sorta di confisca patrimoniale alle altre banche centrali e alle banche private che detengono depositi presso la Snb.
Ora gli industriali svizzeri dichiarano che l’apprezzamento del franco svizzero rappresenterà per le loro industrie – come ha detto Nick Hayek, chief executive di Swatch Group – “uno tsunami”. Ma nessuno li prende sul serio. Ricordiamo che la Svizzera ha un surplus nella sua bilancia dei pagamenti di circa 45 miliardi di dollari, pari al 10.5% del Pil: una cifra colossale, superiore in percentuale anche a quella tedesca, che è del 7.3% del Pil (e poiché la Germania fa parte dell’Unione europea, ricordiamoci sempre che questa percentuale è di gran lunga fuori dai patti). Veramente penalizzati, secondo noi, saranno i cittadini di alcuni paesi, soprattutto Polonia e Ungheria, che hanno avventatamente sottoscritto mutui in franchi svizzeri e avranno un’amara sorpresa quando dovranno rimborsare la prossima rata. L’apprezzamento del franco svizzero non sarà certo un problema per i grandi magnati della finanza e dell’industria che si riuniscono a Davos questa settimana. Lo champagne sarà soltanto un po’ più caro in euro.
Ma perché Thomas Jordan ha fatto questa clamorosa figuraccia ancora una volta? La risposta non può che essere che ha delle informazioni sicure su quello che deciderà Draghi giovedì prossimo. Sembra inoltre che fosse preoccupato dall’eccessivo deprezzamento del franco nei confronti del dollaro. Avrà forse anche tratto le conclusioni che continuare a ingaggiare una guerra valutaria non solo è difficile per un piccolo paese come la Svizzera – il franco svizzero, secondo la Banca dei regolamenti internazionali, è soltanto al sesto posto tra le monete più scambiate nel mercato dei cambi globali, e solo il 15% degli scambi mondiali è fatto in franchi svizzeri – ma è anche inutile se lo scopo è quello di difendere la competitività delle esportazioni svizzere, già di per sé troppo competitive. E infine si potrebbe aggiungere che comunque la decisione del 2011 non era giustificata, e che la decisione di sterilizzare la stampa di moneta con l’emissione di passività in franchi svizzeri, considerando che a dicembre 2014 l’inflazione svizzera era negativa, ben al di sotto dell’obiettivo del 2%, non è stata molto illuminata. E ora, tra l’altro, la rivalutazione non farà altro che peggiorare la deflazione.