Come ampiamente previsto, la Bce ha finalmente annunciato un programma di quantitative easing esteso anche ai titoli di stato. Il piano, che prevede acquisti per 60 miliardi di euro al mese, partirà a marzo e proseguirà fino a settembre 2016 e comunque fino a quando l’inflazione non tornerà a livelli ritenuti coerenti con gli obiettivi della Bce. Il piano, complessivamente, prevede acquisti per 1.140 miliardi di euro nell’arco di 19 mesi, più di quanto era previsto ma meno di quello che sarebbe necessario, secondo molti.
La vera novità del piano, però, consiste nel fatto che l’80% dei bond acquistati dalla Bce rimarranno nei bilanci e a carico delle singole banche centrali nazionali, facendo ricadere dunque i “rischi” di un eventuale default da parte di uno stato membro sulla banca centrale di quello stato. Un dettaglio apparentemente di poco conto ma che invece apre la strada a scenari molto interessanti. Cerchiamo di capire perché.
Come è noto, uno dei motivi principali per cui la Bce ha aspettato fino ad ora ad avviare un programma di quantitative easing è l’opposizione tedesca a qualunque forma di “mutualizzazione” o condivisione del “rischio” (presunto) derivante da un programma di QE. È opinione comune, e non solo in Germania (si veda per esempio questo editoriale di Eugenio Scalfari), che acquistando i titoli dei paesi più “inaffidabili” dell’Unione la Bce esporrebbe i paesi più “solidi” al rischio di “perdite” nel caso in cui il paese in questione decidesse di non rimborsare il debito o addirittura di uscire dall’euro; se ciò accadesse – secondo questa argomentazione – la Bce si vedrebbe spazzato via il suo capitale netto, costringendo i governi dei paesi membri a utilizzare il denaro dei contribuenti per ricapitalizzare la Bce.
Questa argomentazione è viziata da una serie di errori concettuali che nascono da un’errata interpretazione di come funzionano le banche centrali. Siamo soliti leggere nei giornali (anche quelli specializzati, ahinoi) frasi come “il QE mette a rischio il bilancio della Bce”, “la Bce rischia di diventare insolvente”, “l’eurozona si potrebbe vedere costretta a ricapitalizzare la banca centrale” e così via. Ma il fatto è che le banche centrali non sono come le banche commerciali; anche se il valore di una parte degli attivi che una banca centrale detiene sul proprio bilancio dovesse diminuire, essa non corre alcun rischio di diventare insolvente poiché detiene il privilegio di potersi ricapitalizzare da sola. E comunque potrebbe tranquillamente operare anche a capitale negativo. È un punto che Paul De Grauwe e Yuemei Ji hanno recentemente sentito il bisogno di ribadito per l’ennesima volta (si veda anche quest’altro articolo di Karl Whelan). E comunque il Fondo monetario internazionale aveva già risolto la questione in questo paper del 1997 intitolato “Le banche centrali hanno bisogno di capitale?” (rispondendo con un sonoro “no”, almeno da un punto di vista tecnico, salvo poi dire che ci potrebbero essere ragioni politiche per mantenere un capitale positivo, più o meno la stessa conclusione raggiunta da questo studio della Banca dei regolamenti internazionali).
Nonostante questa “verità di Pulcinella”, la comunità internazionale continua a operare in base all’illusione che le banche centrali abbiano bisogno di capitale per operare (anche per ragioni politiche che meritano di essere approfondite in separata sede). Per i tedeschi, poi, è praticamente un atto di fede, da cui la loro ferrea opposizione al quantitative easing. E qui entra in gioco la trovata geniale di Draghi: far assumere il grosso del rischio di un eventuale default di qualche paese della periferia alle banche centrali nazionali, tutelando così i “contribuenti tedeschi”.
La notizia, che era già trapelata la settimana scorsa, ha attirato su di sé numerose critiche, sia politiche che tecniche. Iniziamo dalle prime. Secondo la quasi totalità dei commentatori, la rinuncia al perseguimento di una politica monetaria comune e la ri-nazionalizzazione delle politiche monetarie porterebbe a un’ulteriore frammentazione dell’unione monetaria. Scrive Yanis Varoufakis: “Una forma frammentata di quantitative easing di questo tipo rafforzerebbe la percezione che l’eurozona non riesce a trovare un accordo neanche nel campo della politica monetaria. Verrebbe vista come la fine della politica monetaria comune”. Secondo altri sarebbe “il segnale che la Bce si prepara alla rottura della moneta unica” e “questo potrebbe creare una dinamica capace di rendere quella disintegrazione inevitabile”. Come ha scritto Wolfgang Münchau: “Se la Germania segnala di volersi proteggere da un eventuale default dell’Italia o di qualche altro paese, non offre forse agli investitori privati un incentivo a fare lo stesso?”. Questo potrebbe determinare un aumento del famoso spread tra centro e periferia. “Il risultato sarebbe un ‘trasferimento fiscale permanente’ da parte dei paesi della periferia verso la Germania”, dice Athanasios Orphanides, un ex membro del Consiglio direttivo della Bce, riferendosi ai tassi di interesse “agevolati” – ancor più di quelli attuali – di cui godrebbe la Germania se i mercati ritornassero a dubitare della tenuta dell’euro. Sono paure che hanno una loro fondatezza, e che andrebbero attentamente prese in considerazione, anche se non bisogna dimenticare che una delle ragioni della crisi è proprio l’impossibilità di cucire una singola politica monetaria addosso a 18 economie – 19, con l’ingresso della Lituania – molto diverse tra loro (come si evince dal crescente differenziale inflazionistico tra i vari paesi).
E comunque le aspettative dei mercati sul futuro dell’eurozona dipenderanno in buona parte da quanto continueranno a prendere sul serio la promessa di Draghi di fare “tutto il necessario” per salvare l’euro, ricorrendo se necessario al programma Omt (Outright Monetary Transactions), che pur con tutti i suoi limiti rappresenta un passo avanti nella trasformazione della Bce verso una “normale” prestatrice di ultima istanza (sulla legalità del programma la Corte europea di giustizia deve ancora pronunciarsi ma la settimana scorsa l’avvocato generale Pedro Cruz Villalón ha dichiarato che esso è in linea con i Trattati, rendendo un pronunciamento favorevole da parte della corte sempre più probabile; del resto anche Weidmann ha recentemente ammesso che acquistare titoli sul mercato secondario rientra nei poteri della Bce).
Vi sono poi le critiche di natura tecnica al piano. La più articolata l’ha fatta Guntram Wolff, direttore dell’istituto Bruegel. La sua critica è rivolta soprattutto all’idea che sia effettivamente possibile – a prescindere dal fatto che uno lo ritenga auspicabile o meno – far ricadere tutti i “rischi” dell’operazione sulle banche centrali nazionali. Come spiega Wolff, infatti, anche se i soldi per acquistare i titoli di un certo paese fossero emessi dalla banca centrale di quel paese piuttosto che dalla Bce, quegli euro sarebbero “di proprietà” di tutto l’Eurosistema – l’autorità monetaria dell’eurozona, costituita dalla Bce e dalle banche centrali nazionali di tutti gli stati che hanno adottato l’euro, da non confondere con il Sistema europeo delle banche centrali (Sebc), che riunisce invece tutte le banche centrali dell’Ue – e non della singola banca centrale. Ecco perché – a prescindere dall’autonomia che avranno le varie banche centrali nazionali (BCN) nel decidere gli acquisti di titoli sovrani (i dettagli del piano rimangono ancora tutti da vedere) – la proposta di Draghi non ammonta a “restituire la sovranità monetaria agli stati membri”, come avranno forse sperato alcuni.
In sostanza, è come se l’Eurosistema “prestasse” quei soldi alla BCN; nell’eventualità di un default o di una ristrutturazione dei titoli in mano alla BCN, dunque, quest’ultima avrebbe una perdita nel suo attivo, e una passività in euro – un debito – nei confronti dell’Eurosistema. A quel punto spetterebbe al governo del paese in questione saldare il buco della sua BCN, il che ovviamente vanificherebbe i benefici di un’eventuale ristrutturazione (anche se in teoria potrebbe sempre fare ricorso alle proprie riserve in oro). Secondo Wolff, questo determinerebbe una situazione in cui:
- il governo si vedrebbe costretto a escludere dal default la quota di titoli detenuti dalla BCN e a far ricadere la ristrutturazione solo sui privati, inducendo questi, consapevoli di questa possibilità, a chiedere preventivamente tassi più alti, annullando i benefici del QE nazionale;
- l’Eurosistema dovrebbe rinunciare a chiedere il saldo, ma in questo caso è come se il QE nazionale venisse mutualizzato (che è esattamente quello che il piano dovrebbe servire ad evitare).
“In entrambi i casi”, conclude Wolff, “il tentativo di lasciare il rischio nelle mani della banca centrale nazionale sarebbe fallito”.
Ma le critiche di Wolff e altri sono giustificate? Secondo noi no. O meglio: sì, ma solo se si ritiene che un default da parte di uno stato membro sia un’eventualità probabile; in quel caso sarebbe effettivamente impossibile circoscrivere il rischio – sempre accettando che si possa definire tale – a un singolo paese, visto il meccanismo dell’Eurosistema. Ma il punto che la maggior parte dei commentatori non sembra cogliere è che il QE nazionale renderebbe di per sé improbabile l’opzione default (almeno sulla porzione di debito in mano alla BCN). Potenzialmente, infatti, la BCN può tenere i titoli in suo possesso a bilancio per tutto il tempo che vuole: poniamo che quando questi giungano a scadenza il governo si trovi impossibilitato a rimborsare il debito; in quel caso la BCN può semplicemente rinnovarlo – o “fare rollover” in gergo tecnico, potenzialmente a interessi zero – accettando in cambio nuovi titoli. E così ad ogni nuova scadenza, il che equivarrebbe di fatto a “monetizzare” di quella porzione di debito. Il rischio default, in altre parole, non si pone proprio. Come scrive l’analista finanziario Lorcan Roche Kelly – secondo cui il caso dell’Irlanda offrirebbe anche un precedente in questo senso – “questa possibilità si verifica solo quando l’operazione di QE è praticata da una BCN. Come dimostra il caso della Grecia, se il debito è detenuto della Bce quest’ultima insisterà sempre affinché il debito sia rimborsato in tempo e per intero (creando un rischio di default). Per questo ritengo più auspicabile l’opzione nazionale”.
In linea di massima – anche se a questo punto aspettiamo di conoscere i dettagli del piano – siamo d’accordo con Kelly, anche perché il QE nazionale si avvicinerebbe molto alla proposta da noi avanzata di recente, che si basava proprio su uno strumento che consente alle banche centrali nazionali di stampare moneta in caso di emergenza, l’Emergency Liquidity Assistance (Ela). I problemi veri semmai sono altri:
- la decisione di effettuare gli acquisti in base alla quota di partecipazione dei vari paesi al capitale della Bce, che va a beneficio soprattutto dei paesi più forti dell’eurozona (e della Germania in primis);
- il fatto che il quantitative easing rischia di essere del tutto inefficace in un contesto di stag-deflazione come quello in cui versa l’eurozona se non è accompagnato da un massiccio stimolo fiscale (per maggiori informazioni, vedi qui e qui). Ma al momento questa ipotesi non è neanche contemplata.