Da fare ce n’è, e forse mai come prima. L’Europa lo sa bene, visto che i suoi esperti valutano la minaccia terroristica come “molto seria” e la situazione da affrontare come “più complicata rispetto al dopo 11 settembre”. Su come farlo però, ancora le idee sembrano confuse. Certo, nonostante il fiume di leader Ue e non che, l’uno stretto all’altro, ha marciato a Parigi dopo la strage di Charlie Hebdo, la lotta al terrorismo è prima di tutto materia di sicurezza interna e il grosso del lavoro tocca ad ogni Stato membro, raggiungendo anche buoni risultati, però un miglior coordinamento tra le intelligence nazionali è richiesto da più parti, come anche “suggerito” ieri dal sottosegretario Usa alla sicurezza Sarah Sewall. Ma l’Unione europea può aiutare, o per lo meno potrebbe, se solo decidesse come. Dagli attentati di Charlie Hebdo, Bruxelles si è affrettata a prendere tempo: sbagliato agire sulla spinta dell’azione emotiva, meglio fare le cose con calma, ha chiarito per tutti il presidente Juncker. E così, dalle riunioni sul terrorismo che si sono moltiplicate, non è uscito un solo provvedimento concreto. Anzi sì: il consiglio Affari esteri ha deciso di istituire la figura di un attaché per la sicurezza in ogni rappresentanza diplomatica dell’Unione europea nei Paesi più interessati dal fenomeno terroristico. Misura senza dubbio positiva e proposta da anni da analisti del settore come Rosa Balfour dell’European Policy Centre, ma certo non sufficiente da sola a risolvere il problema e dare una qualche impressione di accresciuta sicurezza ai cittadini, che vedono moltiplicarsi per le strade delle loro città, a Parigi come a Bruxelles, camionette dell’esercito e militari armati di mitra. Molto ora ci si aspetta dalla riunione dei ministri degli Affari interni dei Paesi membri, in programma il 29 gennaio a Riga. Anche se “le prime decisioni”, almeno sullo scambio di informazioni tra intelligence dei diversi Paesi, “le prenderemo al vertice informale” dei capi di Stato e di governo, ha già anticipato Juncker: e quindi nulla fino al prossimo 12 febbraio.
All’immobilismo, fa intanto da contraltare la diffusione di notizie tutt’altro che rassicuranti. La minaccia per l’Europa è triplice, spiega oggi una qualificata fonte europea: per prima cosa ci sono gli stessi cittadini europei che si radicalizzano sul territorio del proprio Paese, senza nemmeno più il bisogno di andare ad addestrarsi all’estero, ma con una semplice connessione ad internet. Poi ci sono i foreign fighters propriamente detti, quelli che partono per la Siria o per altri teatri di guerra in Medio Oriente e tornano, dopo avere ricevuto un completo lavaggio del cervello, in grado di usare senza alcuna difficoltà strumenti militari e perfettamente abituati a livelli di terrore e violenza elevatissimi. Terza minaccia per l’Europa è data dalla competizione in corso tra Al-Qaeda e l’autoproclamato Stato islamico: competizione che, avvisano fonti Ue, potrebbe portare uno dei due gruppi ad atti di forza per affermare la propria supremazia.
Di fronte a tutto questo a mancare non sono tanto gli strumenti quanto piuttosto la volontà politica di agire, ammonisce il coordinatore anti-terrorismo Ue, Gilles De Kerchove in un documento riservato presentato ai Paesi membri in vista della riunione dei ministri dell’Interno: “A livello comunitario – scrive – il lavoro è già a buon punto e molto è in cantiere”, ora “abbiamo bisogno di mobilitare la volontà politica e amplificare e accelerare l’implementazione delle misure che sono state già decise”.
Quelle, ad esempio, per combattere la radicalizzazione attraverso internet: “L’Ue e i suoi Stati membri – scrive il coordinatore antiterrorismo Ue – hanno sviluppato diverse iniziative contro radicalizzazione, terrorismo e per promuovere contro-narrative”. Ora si tratta di “attingere a queste iniziative e capire quali possono essere intensificate per aumentare l’efficacia dell’Ue”. Scarso impegno evidenzia il coordinatore antiterrorismo europeo, si è visto finora anche nella lotta al traffico illegale di armi che pure sarebbe cruciale per bloccare attacchi terroristici: l’Ue, sprona De Kerchove, dovrebbe invitare gli Stati ad aderire al piano d’azione contro il traffico di armi da fuoco che pure esiste ma a cui ad oggi partecipano soltanto 13 Stati membri.
Fondamentale sarebbe poi la condivisione di informazioni tra gli Stati membri, che pure si sta dimostrando difficoltosa, perché come ha sottolineato lo stesso vicepresidente della Commissione Timmermans, gli Stati non si fidano l’uno dell’altro e “ci sono gelosie”, come dice il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni. Occorre accrescere anche “l’uso di Europol” perché, evidenzia De Kerchove, “il più grande difetto è stata la mancanza di informazioni da parte delle autorità nazionali di controterrorismo”. Di fronte ad una realtà di almeno 5.000 foreign fighter europei, che hanno realizzato lo scorso anno circa 500 attentati, “urgente e cruciale”, secondo il coordinatore antiterrorismo Ue, è anche sbloccare la partita Pnr (passanger name record), bloccata per il momento dal Parlamento europeo. Talmente bloccata che gli Stati si stanno organizzando ognuno per conto suo, ed ognuno ha la sua lista dei viaggi aerei verso i propri aeroporti. Ma, è evidente, non basta, se non si incrociano i dati con gli altri. Tutte cose tutt’altro che impossibili, che potrebbero già essere attuate con gli strumenti legislativi esistenti, ma per cui serve un cambio di passo in termini di volontà politica che ancora non si è visto.