Pur eccependo le conclusioni – a nostro avviso, i paesi della periferia hanno bisogno di un incremento dei loro disavanzi pubblici e non semplicemente di un rallentamento nella loro riduzione – riceviamo e pubblichiamo volentieri questo articolo di Berlaymont, uomo vicino agli ambienti della Commissione europea, che spiega le nuove linee guida di Bruxelles sulla flessibilità.
di Berlaymont
La posizione di Renzi nei confronti dell’Europa, fin dall’inizio del suo mandato di presidente del Consiglio, è stata più o meno la seguente: noi facciamo le riforme e voi in cambio dovete smettere di imporci l’austerity che distrugge la crescita.
La domanda interna si divide in consumi e investimenti. Per quanto riguarda i consumi, Renzi ha scelto una misura molto simbolica: restituire 80 euro in busta paga ai lavoratori dipendenti, abbassando le tasse. Sugli investimenti, invece, ha puntato il dito contro l’Europa, chiedendo un maggiore margine di manovre fiscale. Un ottimo dispositivo nel breve termine.
Ma adesso l’Ue potrebbe rispondergli: “Stai attento a ciò che chiedi, perché potresti ottenerlo!”. La settimana scorsa, con la pubblicazione delle nuove linee guida Ue sulla flessibilità, è arrivata infatti la risposta della Commissione alle richieste di maggiore flessibilità nella correzione delle finanze pubbliche avanzate da alcuni stati, tra cui l’Italia.
In questo documento la Commissione offre una nuova interpretazione delle regole del Patto di stabilità. Innanzitutto, sarà possibile per gli stati membri contribuire senza limiti al Fondo europeo per gli investimenti strategici (Efsi) inaugurato da Juncker; i contributi nazionali al fondo, infatti, non saranno presi in conto nel calcolo delle regole di bilancio europee. Sarano inoltre scomputati dal calcolo del deficit/debito anche gli investimenti di cofinanziamento nei progetti nazionali selezionati dal fondo europeo. Infine, Bruxelles terrà conto dell’applicazione delle riforme strutturali.
Ma la novità più importante per l’Italia non si trova nel testo dalla comunicazione ma piuttosto in una delle tabelle in allegato. In essa, la Commissione spiega che vi sono cinque categorie con cui viene giudicata la situazione di un paese nel ciclo economico – da “good times” a “exceptionally bad times” – con implicazioni diverse per lo sforzo di bilancio che viene richiesto ad un paese. Dalla tabella si può evincere che i livelli di correzione del disavanzo pubblico previsti per i paesi in “very bad times” o “bad times” (sarebbe a dire l’Italia rispettivamente nel 2015 e nel 2016) sono meno stringenti di quelli richiesti dalla Commissione negli anni scorsi. Col risultato che all’Italia non sarà richiesto alcuno sforzo aggiuntivo nel 2015, e solo uno sforzo minimo nel 2016.
A prima vista questa svolta potrebbe apparire come una vittoria per il premier: “Bene, ci hai convinto, ti offriamo la flessibilità che ci hai chiesto”. Ma si tratta di un regalo avvelenato, perché indebolisce l’argomento tradizionale usato dai governi: “Noi siamo bravi, è l’Europa che non ci permette di risolvere i problemi, noi saremmo capaci di rilanciare l’economia ma i burocrati non ci lasciano farlo”.
Diventa adesso urgente trovare una storia alternativa. La legge di stabilità per il 2015 è la seconda che non prevede sforzi significativi per far diminuire il disavanzo strutturale del paese: già nel 2014 la Commissione aveva accettato un aumento del disavanzo strutturale dello 0.1% del Pil. Di fatto, sono due anni che l’Italia beneficia di una certa flessibilità nell’applicazione delle regole di bilancio. E adesso Bruxelles da il via libera agli investimenti. Se la crescita non dovesse arrivare, potremo sul serio continuare a dare la colpa al Patto di stabilità?