Le imminenti elezioni greche, e la prospettiva di una possibile vittoria di Syriza, hanno rimesso la questione del debito greco al centro del dibattito europeo. Alexis Tsipras ha infatti annunciato che in caso di vittoria elettorale chiederà “la cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico” e un “periodo significativo di moratoria” sul rimborso della parte restante del debito (vedi il cosiddetto “Programma di Salonicco”, presentato da Tsipras il 15 settembre scorso). Prevedibilmente, la notizia ha mandato in tilt le cancellerie di mezza Europa. Ed è facile capire perché. Solo il 15% del debito greco, che ammonta a 317 miliardi di euro (il 177% del Pil), è in mano al settore privato (il che spiega la relativa calma dei mercati). Il grosso del debito – il 65% del totale, per la precisione – è detenuto dagli altri governi dell’eurozona. Il resto è in mano al Fondo monetario internazionale e alla Bce. Considerando che l’Fmi non permette agli stati di ristrutturare i debiti nei suoi confronti; che la Bce, per bocca del francese Benoît Cœuré, ha dichiarato senza mezzi termini che un’eventuale ristrutturazione del debito in mano alla Bce sarebbe illegale; e che Tsipras ha affermato di non voler colpire i creditori privati, risulta evidente che saranno i governi europei a pagare per intero il prezzo di un’eventuale ristrutturazione del debito greco.
La Germania ha già fatto sapere che è disposta a prendere in considerazione una revisione delle condizioni di rimborso (rinegoziando le scadenze e/o i tassi di interesse, per esempio), ma ha categoricamente escluso l’ipotesi di un taglio del valore nominale del debito. Come ha dichiarato recentemente il ministro delle finanze tedesco Schäuble: “Non ci sarà alcun taglio del debito, punto. Quindi smettiamola di parlarne”. Possiamo ipotizzare che il messaggio di Schäuble fosse rivolto tanto ai greci quanto all’elettorato tedesco: secondo l’interpretazione, divenuta in poco tempo egemone, che l’élite politica tedesca ha dato della crisi dell’eurozona, quest’ultima sarebbe tutta da imputare ai paesi della periferia, che avrebbero vissuto al di sopra delle loro possibilità, accumulando debiti insostenibili; secondo questa lettura, la Germania e gli altri paesi dell’eurozona avrebbero dato prova di grande solidarietà accettando di sborsare centinaia di miliardi di euro per salvare le irresponsabili cicale del Sud Europa, a partire dalla Grecia. È normale, dunque, che i tedeschi ora giudichino il rifiuto della Grecia di onorare i debiti contratti con i loro partner europei come un tradimento (e che il governo tedesco cerchi di salvare la faccia di fronte ai propri elettori).
Curiosamente, anche la maggior parte di coloro che pragmaticamente sostengono la necessità di una ristrutturazione del debito greco condividono l’idea secondo cui il “salvataggio” – o bailout – della Grecia da parte della troika, prima nel 2010 e poi nuovamente nel 2012, per un totale di 226 miliardi di euro, avrebbe avuto principalmente lo scopo di tenere a galla lo stato greco, permettendogli di far fronte alle spese correnti (gli stipendi di medici, insegnanti, poliziotti e così via). Secondo questa lettura, la Germania potrebbe essere paragonata a una sorella maggiore severa, forse un po’ ottusa, ma comunque disposta ad aiutare i propri fratelli nel momento del bisogno. Ma è veramente così?
La Grecia ha iniziato lo sforzo di risanamento di bilancio con un deficit al netto del pagamento degli interessi di circa 24 miliardi di euro nel 2009, e ha avuto un disavanzo primario nel 2010, 2011 e 2012. Dal 2013 in poi, però, i ricavi hanno superato le spese e nessun finanziamento è stato necessario per coprire le operazioni dello stato. Questa stretta brutale ha prodotto la conseguenza che solo poco più di 15 miliardi di euro di prestiti della troika sono stati utilizzati per coprire i costi dello stato. Se sommiamo qualche altra esigenza di finanziamento del governo (soprattutto in materia di rimborsi di arretrati accumulati nei primi due anni della crisi) risulta che alle necessità di funzionamento dello stato greco è andato solo l’11% del finanziamento totale, circa 27 miliardi di euro.
E allora dove sono finiti tutti i soldi? Come ha spiegato di recente l’economia greco Yiannis Mouzakis sul portale Macropolis, dall’analisi dei documenti della Commissione europea, dell’Fmi e del governo greco emerge che il grosso dei soldi è stato utilizzato per ricapitalizzare le banche greche e per onorare gli impegni con i creditori dello stato e dei privati greci, in gran parte banche tedesche e francesi, non per risanare i buchi di bilancio. Più precisamente, circa la metà del finanziamento è finito a rimborsare i titoli in scadenza e a ripagare gli interessi sul debito, mentre il 20% è andato alle banche greche; il resto dei fondi ha invece riguardato le attività di ristrutturazione e di riacquisto del debito. In definitiva, più dell’80% degli “aiuti” della troika sono andati a beneficio diretto o indiretto del settore finanziario (nazionale ed estero). Soprattutto di quello tedesco, che infatti è riuscito a ridurre la propria esposizione nei confronti della Grecia dell’80% circa tra la metà del 2010 – quando è stata approvata la prima tranche di finanziamenti – e la metà del 2012.
Questi dati mostrano quanto sia fallace l’idea secondo cui “i soldi dei contribuenti europei”, come amano chiamarli, siano serviti a salvare la Grecia e gli altri paesi della periferia; la verità è che, con la scusa di salvare le cicale greche, i soldi dei contribuenti europei – di tutti noi – sono stati utilizzati per salvare ancora una volta le grandi banche del continente. Molte delle quali tedesche. È la stessa conclusione raggiunta anche da nientedimeno che Peter Böfinger, consigliere economico del governo tedesco, che nel 2011 ha dichiarato che il bailout della Grecia “non riguarda tanto i problemi della Grecia quanto quelli delle nostre banche, che possiedono molti crediti nei confronti del paese”. Nel frattempo il debito della Grecia è esploso, passando dal 130% del 2010 al 177% di oggi. Per aggiungere la beffa al danno, poi, “l’aiuto” della troika è stato utilizzato come giustificazione per imporre alla Grecia un brutale programma di austerità fiscale e salariale che ha bruciato un quarto del reddito nazionale e ridotto in povertà milioni di persone (per maggiori informazioni vedi la nostra recente intervista a Yanis Varoufakis).
Incredibilmente, il dubbio che il bailout così come concepito dalla Commissione europea e dalla Bce avesse lo scopo di salvare le banche e non la Grecia fu sollevato a suo tempo persino dal terzo membro della troika, il Fondo monetario internazionale. È riportato nero su bianco nei verbali della drammatica riunione del 9 maggio 2010 in cui l’Fmi ha dato il via libera al primo piano di aiuti per il paese, pubblicati dal Wall Street Journal. I documenti, classificati come riservatissimi e segreti, parlano chiaro: più di quaranta paesi, tutti non europei e pari al 40% del board, erano contrari al progetto messo sul tavolo dai vertici Fmi. Il motivo? Era “ad altissimo rischio”, come ha messo a verbale il rappresentante brasiliano, perché “concepito solo per salvare i creditori, nella gran parte banche del vecchio continente e non la Grecia”. L’articolo spiega che l’Fmi era propenso a imporre subito un taglio al debito greco, per mezzo di un “haircut” (come poi è stato fatto nel 2012), ma la Commissione europea e la Bce erano fermamente opposte a imporre qualunque perdita ai creditori. È interessante notare che l’opposizione dell’Fmi al piano si basava sull’argomentazione secondo cui un prestito così ingente in relazione al Pil del paese (in pochi anni la Grecia ha preso in prestito dalla troika fondi equivalenti al 125% dell’attività economica del paese nel 2014) avrebbe reso il debito greco – al tempo ancora sostenibile, secondo l’organizzazione – definitivamente insostenibile. Una previsione che oggi, secondo praticamente tutti gli analisti, è diventata realtà. E che rende la ristrutturazione annunciata da Tsipras – una proposta tanto “radicale” da essere stata suggerita quattro anni fa proprio dal Fondo, e ripresa poi dalla Francia nel 2012 – una condizione essenziale per permettere al paese di ricominciare a crescere (soprattutto alla luce degli attuali vincoli di bilancio europei, che Syriza ha annunciato di voler rispettare).
Lo stesso Marcel Fratzscher, presidente di uno dei principali istituti di ricerca economica tedeschi, il DIW, ha recentemente dichiarato che “il debito pubblico della Grecia andrebbe dimezzato, ossia tagliato di circa 120 miliardi di euro” per rimettere il paese su una traiettoria sostenibile. Ed è stato Wolfgang Münchau a far notare qualche tempo fa sul Financial Times come il programma di Syriza, lungi dall’essere una pericolosa minaccia per l’eurozona, sia invece l’unico a proporre ciò che è il “consenso” tra gli economisti per risolvere la crisi dell’area euro senza spaccarlo: grandi investimenti pubblici e una ristrutturazione controllata dei debiti. E se qualcuno ha qualcosa da ridire, gli suggeriamo di andare a bussare alla porta di chi ha beneficiato di più da tutta questa storia: Berlino.
Per maggiori informazioni vedi:
Germania: il vero malato d’Europa
Euroeccesso: perché il surplus commerciale dell’Europa è un pericolo per il mondo
Il quantitative easing di Draghi: l’ennesimo regalo alle banche?