Finisce oggi il semestre di presidenza italiana dell’Unione europea. Non è stato un cattivo semestre, certamente non peggiore della media, e anzi, forse si è davvero contribuito a dare una spinta al carro della svolta nella politica economica.
In questi sei mesi però l’Italia, e Matteo Renzi, hanno, consapevolmente, rinunciato a due occasioni davvero importanti che le si erano parate davanti. La prima, sul piano istituzionale, è stato l’aver deciso di rinunciare a prendere la guida del Consiglio europeo, cosa che ha portato, per una via quasi obbligata, a perdere (o a rinunciare) anche la seconda occasione, quella di prendersi la leadership dello zoppicante socialismo europeo.
C’è stato un momento, subito dopo le elezioni europee, nel quale il Partito popolare, sonoramente ridimensionato dal voto, sarebbe stato disposto, come aveva timidamente chiesto quell’uomo dalle qualità nascoste che è il presidente francese François Hollande, a cedere quella poltrona al Partito socialdemocratico, che, pur restando il secondo, aveva avuto un buon risultato tra gli elettori. La condizione era che il candidato non fosse troppo “di sinistra” e non fosse di “rottura”. Hollande, da incerto negoziatore qual è, ha lanciato la proposta ma ha rifiutato la candidata che era lì, pronta e gradita, perché la vedeva troppo vicina ai centristi, la premier danese Helle Thorning-Schmidt. Dunque la parola tornò ai popolari (che sono quelli che realmente danno le carte in Europa) e venne, niente di meno che dal presidente del Consiglio europeo uscente Herman van Rompuy, il nome di Enrico Letta. Renzi pose un veto assoluto. Letta era, allora, ancora in qualche modo un suo antagonista, e permettergli di restare vivo politicamente non era nei programmi del presidente del Consiglio italiano. A quel punto il Ppe si riprese le carte e se le distribuì a suo piacere: il Pse non era stato in grado di cogliere un’occasione offerta davvero su un piatto d’argento.
Da questa scelta ne è inevitabilmente discesa un’altra: il Pse resta senza un leader e Matteo Renzi ha deciso di non tentare questa corsa. Dicendo “no “ a Letta tagliò i ponti, ma rifiutò anche di assumersi una responsabilità storica verso il socialismo europeo, che è sbandato come mai e che avrebbe bisogno di una personalità forte e originale che lo guidi. Renzi ha avuto il quarantuno per cento alle elezioni europee, un risultato enorme, il migliore tra i Ventotto, ma anziché scegliere di usarlo per costruirci attorno un consenso europeo lo usa per rivendicare posizioni nelle istituzioni (lo ha detto esplicitamente lui, ad esempio nel caso della scelta di posizione e nome con Federica Mogherini). Ma è un gioco rischioso, un gioco che non paga. L’Italia ha avuto sì la poltrona cui ambiva, ma anche la Francia, pur con un partito socialista stimato attorno al dodici per cento e un presidente che vede la fiducia dei cittadini nei suoi confronti solo se usa una lente di ingrandimento, ha avuto anch’essa una poltrona di grande prestigio e potere (non minore di quello di Mogherini) per il suo Pierre Moscovici agli Affari economici.
Renzi ha deciso di non giocare questa partita, non va neanche, se non per qualche occasionale e fugace momento, ai vertici che i leader socialisti tengono prima dei Consigli europei. Avrebbe potuto farlo, avrebbe potuto decidere di dar forza alla sinistra europea, ha avuto anche l’occasione del semestre per farlo, ma ha deciso di no, di giocare la sua partita in Italia, di fare l’antagonista “nazionale” ad Angela Merkel, invece di farlo a nome di tutti, di mostrare un’unità (che certo ora non c’è ma va pur trovata) dei socialdemocratici. Non ha aiutato la causa insomma. E ora, ad agitare ancor più le acque, arriverà, è possibile, il greco Alexis Tsipras nel Consiglio europeo. Rappresenterà un piccolo paese che però ha un grande problema e dunque il suo comportamento riguarderà tutti, e potrebbe lui diventare un punto di riferimento per gli europei che si sentono a sinistra del Partito popolare.