Dal venditore di almanacchi del ‘favoloso’ Leopardi all’amico epistolare caro a Lucio Dalla, quello di formulare previsioni per l’anno nuovo è esercizio carico di suggestioni, forse un po’ ozioso se non stucchevole; e tuttavia, un po’ come il panettone di Natale (quello coi canditi, per intenderci), anche se può non piacere a tutti, difficile farne a meno.
Va quindi ribadito a mo’ di disclaimer che fare previsioni è complicato per definizione, specialmente se ci si avventura a prevedere l’avvenire, come ammonisce una massima ricorrente ma provvista di più di un fondo di saggezza; ed ancor più quando ci si addentra sul terreno volatile e carico d’incognite delle relazioni internazionali. E pur tuttavia passare in rassegna i più rilevanti campi d’azione ed ipotizzare i loro possibili scenari evolutivi, o all’inverso di continuità, può avere una sua utilità, non solo intellettuale ma anche concreta. Proviamo, quindi.
In prima linea tra i candidati alla continuità, è probabile che sia il conflitto israelo-palestinese, alias nel gergo degli addetti ai lavori, Processo di Pace in Medio Oriente. Continuerà ad esserci ben poco processo ed ancor meno pace tra israeliani e palestinesi nel 2015, con buona pace di quelle persone di buona volontà (da John Kerry a Federica Mogherini) che non lesineranno sforzi nel tentativo di offrire una prospettiva diversa dalla prosecuzione dello status quo. Con buona probabilità proseguirà anche lo scollamento tra l’Europa e Israele manifestatosi nel corso del 2014 (come del resto già negli anni precedenti), destinato anzi ad accentuarsi se le elezioni israeliane in programma per i primi mesi del 2015 premieranno i fautori della linea dura.
Tra i conflitti per i quali è da attendersi che il 2015 non porti novità significative rispetto all’anno che l’ha preceduto va annoverato anche quello in corso nell’Ucraina orientale, tra la Russia e l’Ucraina. Un conflitto non dichiarato: la Russia nega di esservi direttamente implicata e anche nella recente conferenza stampa di fine anno Putin è ricorso a vari artifici verbali per smentire la presenza di forze regolari russe sul territorio ucraino. Resta la realtà del conflitto che probabilmente è destinata a farci compagnia, sostanzialmente immutata, anche nel nuovo anno. Per ciascuna delle due parti, infatti, l’interesse al mantenimento dello status quo probabilmente prevale su quello ad una cessazione delle ostilità che pure, senza ombra di dubbio, da un punto di vista puramente umanitario sarebbe l’opzione preferibile. Per la Russia il protrarsi di un conflitto a bassa intensità serve a intralciare il nuovo corso filo-occidentale dell’Ucraina; per Kiev, la minaccia del nemico alle porte puo’ essere uno strumento poderoso per generare sostegno per l’annunciato programma di riforme radicali, e al tempo stesso un comodo alibi nel caso di un loro fallimento. La prosecuzione delle ostilità confermerà inoltre l’Occidente nella linea di fermezza sinora adottata nei riguardi della Russia, che dovrebbe di conseguenza tradursi nel mantenimento delle sanzioni. Il prolungarsi dell’isolamento del Cremlino nel 2015 difficilmente produrrà gli effetti sperati: se si guarda al passato più e meno recente delle relazioni tra Mosca e l’Occidente, le fasi di confronto hanno determinato un ulteriore irrigidimento delle posizioni russe almeno tanto quanto quelle di disgelo si sono rivelate catalizzatrici di trasformazioni anche rivoluzionarie.
Proseguirà nel nuovo anno il tortuoso cammino dei Paesi arabi che avevano avviato un percorso di transizione qualche anno addietro. Un cammino per il momento a ritroso nel caso dell’Egitto, dove gli apparati di sicurezza cercheranno di consolidare la propria presa su società e territorio, mentre le istituzioni civili si sforzeranno in parallelo di rispondere in maniera più efficace alle istanze della popolazione (non facilmente conciliabili) di maggiore benessere e giustizia sociale. Un cammino incerto nel caso di paesi in cui le incognite della transizione s’intersecano con tensioni etniche e settarie, come Yemen e Libia, con l’augurio per quest’ultima (poco più che un proposito di fine anno, allo stato attuale: e tuttavia non è infrequente che i conflitti più cruenti possano esaurirsi per reciproco sfinimento di coloro che li combattono) che milizie belligeranti e attori esterni sappiano mettere agende e interessi di parte al servizio di una causa comune. Un cammino di speranza, nel caso della Tunisia, che resta l’unico, fragile e per questo ancora più prezioso barlume di luce nell’orizzonte tenebroso di quelle che un tempo non lontano erano state presentata come un cielo di primavera.
Per non allontanarsi troppo, anche quanto a metafore cromatiche: il 2015 vedrà probabilmente la bandiera nera degli estremisti islamici (IS o Dahesh che dir si voglia) sventolare meno di quanto sia stato il caso nello scorcio di 2014 appena trascorso. L’avanzata degli estremisti, in Iraq e altrove, si è rivelata meno irresistibile di quanto si era paventato a un certo punto; anche perché la risposta militare della variegata coalizione, internazionale, regionale e locale, assemblata dagli Stati Uniti è stata abbastanza pronta ed efficace. L’obiettivo della strategia americana, riassunto nel triplice ‘degrade-defeat-destroy’ enunciato dal Presidente Obama, resta però ben lontano dall’essere raggiunto: e paradossalmente i primi progressi sul campo potrebbero allontanarlo anziché facilitarne il conseguimento, propiziando un fisiologico abbassamento della guardia che è forse quel che gli stessi estremisti attendono.
Per alcuni focolai di crisi che potrebbero, se non risolversi del tutto, quanto meno diminuire momentaneamente d’intensità, altri se ne potrebbero presentare. Età avanzata e condizioni di salute precarie delle leadership rispettive di Oman, Arabia Saudita, Algeria potrebbero profilare scenari di successione dagli esiti difficilmente calcolabili e ancor meno prevedibili, ma con una sola ragionevole certezza: quella di una successione consensuale e senza scosse appare l’opzione meno probabile.
Tra le altre incognite che segneranno il 2015, impossibile trascurare le tensioni ai margini occidentali dell’Oceano pacifico, tra una Cina destinata a proseguire la propria ascesa anche sul terreno politico-militare e un Giappone la cui ricerca di normalità passa inevitabilmente attraverso una postura regionale meno accondiscendente; come anche la perdurante instabilità, nel sud del continente asiatico, di paesi come Pakistan e Afghanistan, soggetti alla duplice minaccia della debolezza del potere statale e della forza di organizzazioni criminali e terroristiche (una condizione condivisa da varie parti del continente africano). Su tutte, l’incognita ulteriore del prezzo del petrolio: che se ad avviso dell’autore di queste righe è destinato a risollevarsi dai record delle ultime settimane di quest’anno, resterà probabilmente su livelli sufficientemente bassi da influenzare in maniera sostanziale il panorama internazionale.
Nel concludere questa sommaria rassegna dell’anno alle porte, mi rendo conto di aver lasciato da parte le opzioni estreme: le alternative, come si dice in gergo, del ‘black swan’ o del ‘breakthrough’. Sul primo continuerò a sorvolare, non foss’altro che per scaramanzia; sul secondo, azzardo un pronostico secco: un accordo nucleare con l’Iran potrebbe essere la buona notizia del nuovo anno.
Che dire, infine, del ruolo dell’Europa in questi scenari? Qui, debbo rilevare l’esistenza di un conflitto d’interesse (‘nemo iudex in re sua’, si sarebbe detto qualche era geologica fa); e attenermi a un rigoroso silenzio…