L’economia, non le relazioni internazionali, è nota come la ‘scienza triste’; e tuttavia è vero che anche nelle seconde la frequenza delle cattive notizie (ovvero crisi o questioni delicate e complesse da risolvere) è molto più elevata di quella delle storie a lieto fine. Per fortuna, ogni tanto ci sono delle eccezioni – tanto più gradite se esse coincidono con la vigilia di Natale; e quale addobbo più propizio della mediazione discreta ma efficace (o efficace perché discreta? Ne riparleremo in una prossima occasione) della diplomazia pontificia. Non capita spesso; ma quelle rare volte che succede ci si può lasciar cogliere dal piacere della sorpresa di avvenimenti che rischiarano un panorama internazionale altrimenti tendente al buio pesto. Mi riferisco, è evidente, all’annuncio reso in simultanea dai Presidenti di Cuba e Stati Uniti, del ristabilimento di relazioni diplomatiche tra i due Paesi. La decisione – un primo passo verso la normalizzazione: la strada da compiere è ancora lunga e tortuosa e non tutti, da ambo le parti, paiono egualmente convinti della necessità di percorrerla – pone fine a decenni di tensioni, inimicizie e ostilità più o meno aperte tra due Paesi che le leggi ferree del vicinato obbligavano ad una coesistenza meno antagonistica.
Adesso che nei Caraibi la storia sembra iniziare a rimettersi al passo con la geografia, può essere di un certo interesse ripercorrere le vicende dei decenni trascorsi con un occhio a quanto sta accadendo a migliaia di miglia di distanza, ad est del continente europeo. Difficile non notare certi parallelismi. E chissà che non se ne possa trarre qualche lezione.
Proverò a ricapitolarle, facendo astrazione da riferimenti storici e geografici più puntuali, in modo che le assonanze risaltino con maggiore evidenza.
Dunque: in un Paese che la prossimità geografica colloca inesorabilmente nell’orbita di un vicino grande e ingombrante, la popolazione manifesta crescente insofferenza per la corruttela che contraddistingue l’antico regime, che ha però il pregio di adeguarsi agli imperativi della geopolitica e di assecondare gli interessi del grande vicino (per mutuare un vecchio adagio, non dei più eleganti ma di indubbia efficacia: ‘he is a son of a bitch but he is our son of a bitch’).
L’insofferenza popolare, a lungo andare, diventa però insostenibile, e così un movimento insurrezionale si tramuta in una rivoluzione che porta alla sostituzione del vecchio regime con il nuovo, la cui ascesa al potere è salutata con entusiasmo dalla piazza. Il nuovo regime, sulle prime, non è pregiudizialmente ostile al grande vicino; a quest’ultimo, tuttavia, la novità del cambio di guardia inatteso in un Paese così ravvicinato non va a genio; diverse voci all’interno del suo establishment preconizzano che il contagio rivoluzionario possa estendersi in maniera pericolosa, potenzialmente destabilizzante, e comunque inaccettabile.
Viene così messo in atto un tentativo di contro-insurrezione. Una squadra di forze speciali, assistita sul posto da ribelli locali, cerca (senza riuscirvi) di sollevare la popolazione contro il nuovo regime. In parallelo, viene introdotto un complesso di misure punitive che hanno lo scopo di determinare l’isolamento del nuovo regime, e di conseguenza indurlo a più miti consigli, e che producono invece il risultato di accentuarne l’alienazione, e la conseguente, progressiva ostilità.
Nel frattempo, il grande Paese continua a mantenere una base militare, con tanto di spiegamento di truppe, sul territorio del piccolo vicino; quest’ultimo a parole protesta per la violazione della propria sovranità, nei fatti tollerandola.
Il resto è storia più o meno nota – di retorica militante (e a volte seducente) da ambo le parti, sanzioni, boat-people e influenti comunità di immigrati -, che giunge fino ai giorni nostri. Fino a quel ‘siamo tutti americani’ dell’altro giorno: la constatazione di un’ovvietà da un punto di vista geografico, con effetti tuttavia dirompenti (in senso positivo) da un punto di vista politico.
Vista dalla prospettiva del mar Nero, il momentaneo epilogo di questa lunga storia dei Caraibi incoraggia a un ragionato ottimismo: prima o poi, storia e geografia tendono a riallinearsi e il barometro delle relazioni tra Paesi vicini ad aggiustarsi verso il bello stabile.
C’è solo da augurarsi che non ci sia bisogno di attendere altri cinquant’anni, come nel caso del disgelo tra Cuba e Stati Uniti, perché ciò accada anche ai confini orientali del nostro continente..