La tentazione sarebbe quella di assegnare un giudizio: di stabilire se alla fine dei suoi sei mesi alla guida dell’Ue, l’Italia sia da promuovere oppure da bocciare. Ma tracciare il bilancio di una presidenza di turno non è così semplice: non lo è in linea generale e meno ancora lo è per l’Italia che è arrivata a presiedere l’Unione a ridosso della pausa estiva e in piena fase di transizione istituzionale, con un Parlamento appena eletto e una Commissione impegnata nella formazione del nuovo collegio. Se sei mesi, insomma, sono pochi per tutti, con l’Italia il tempo è stato ancor più tiranno. Ma al netto delle contingenze, cosa è riuscita a portare a casa la nostra presidenza di turno?
Il risultato più significativo è forse anche quello più impalpabile: non un difficile accordo ben negoziato che rimarrà nero su bianco, ma piuttosto un cambio di sensibilità. L’Italia ha puntato, fin dall’inizio, ad un nuovo modo di vedere la politica economica dell’Ue. Risultato ambizioso, e ancora di là dall’essere completamente raggiunto, ma la direzione è stata presa e l’Italia, seppure certamente non sola, potrà dire di essere stata tra i più convinti sostenitori della necessità di imboccare questo sentiero che punta un po’ meno al consolidamento di bilancio come valore assoluto e un po’ più a crescita e investimenti.
“L’Ue non è una piccola barca ad alta velocità ma è un grande transatlantico, per cui non si possono imprimere sterzate a 180 gradi all’improvviso”, commenta la presidenza italiana, ammettendo che il processo è appena iniziato. “Ma quello che oggi può apparire come un timido accenno, nel tempo porta invece cambiamenti significativi”. Basta pensare, ricordano gli italiani, ad alcuni dibattiti di giugno e luglio quando anche solo l’idea di dedicare, come poi è stato, il Consiglio europeo di ottobre a crescita e occupazione aveva dovuto superare non poche contrarietà. Rispetto ad allora “abbiamo fatto un bel pezzo di strada”, rivendica la presidenza. E poco importa se il termine “flessibilità”, tanto caro al premier Renzi, non è ancora entrato davvero nel vocabolario europeo, quello che conta è avere “marcato un cambiamento significativo e sostanziale nel modo di definire la politica economica dell’Ue”.
Stessa cosa l’Italia ha iniziato a fare per l’immigrazione. Anche in questo caso la sfida era soprattutto sull’approccio: da quello “di conflittualità” ad uno di “confronto e condivisione”. Dalla gestione dei flussi migratori come susseguirsi di continue emergenze, alla presa di coscienza della necessità di interventi strutturali, cosa in parte avvenuta con l’entrata in funzione di Triton che dal primo novembre contribuisce al pattugliamento del Mediterraneo.
Anche in termini di accordi chiusi l’Italia non se l’è poi cavata male. Tra le medaglie da appuntare al bavero, la più preziosa è forse l’accordo sugli Ogm, che lascia agli Stati membri la libertà di vietare sul proprio territorio la coltivazione di Organismi geneticamente modificati approvati a livello europeo. Accordo affatto scontato, raggiunto dopo quattro anni di duri negoziati, nonostante la forte contrarietà di principio di diversi Stati membri. Bene, sempre sul fronte ambientale (ambito in cui la presidenza italiana è stata molto attiva), anche l’accordo per la riduzione sull’uso delle buste di plastica non riciclabili.
Diversi successi l’Italia li ha portati a casa anche in ambito economico e in particolare nella lotta all’evasione fiscale, aiutata in questo anche dall’esplosione dello scandalo Luxleaks che ha alzato di molto il livello di attenzione degli Stati sul tema. L’ultimo Ecofin a guida italiana ha approvato una direttiva, da tempo arenata in Consiglio, per permettere lo scambio automatico di informazioni sui conti correnti, archiviando di fatto il segreto bancario. Approvata anche la revisione delle direttiva ‘madri-figlie’ (o sussidiarie) per combattere l’evasione delle multinazionali. Sotto presidenza italiana è arrivato anche l’accordo sul budget comunitario per il prossimo anno. Nulla di rivoluzionario, un accordo sebbene con l’acqua alla gola, normalmente si raggiunge, ma l’Italia ha avuto il merito di riuscire a gestire e chiudere una complessa partita che durava da mesi.
A livello più simbolico che operativo, la presidenza italiana ha mandato anche un segnale forte in tema di diritti, organizzando, nell’ambito del proprio semestre, la prima conferenza europea di alto livello che si sia mai tenuta sui diritti di gay, lesbiche, bisex e transessuali. Un impegno appunto più che altri simbolico visto che, proprio secondo la stessa conferenza, i gay italiani si sentano i più discriminati d’Europa. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare.
Certo non tutto, in questi sei mesi, è andato come l’Italia avrebbe voluto. Si è dovuta alzare bandiera bianca sulla normativa per l’etichettatura “Made In” che avrebbe imposto l’indicazione di provenienza anche per i prodotti non alimentari. Uno smacco tanto più forte visto che il provvedimento era fortissimamente voluto dalle imprese italiane per difendersi dalla contraffazione. Niente da fare anche per l’introduzione della Tobin Tax, la tassa sulle transazioni finanziarie: la presidenza italiana si è dovuta arrendere alla contrarietà di 11 Paesi e ha passato la palla alla presidenza lettone, sperando in un accordo nel 2015.
Ma non è tanto importante fare un bilancio quantitativo, ammonisce la presidenza italiana. La volontà è stata quella di “essere più ambiziosi sulle cose sui cui speravamo di potere avere un impatto effettivo e più selettivi sulle cose da fare”. In linea con il nuovo approccio della Commissione Ue che ha ristretto i punti del proprio piano di lavoro da centinaia a poche decine, anche l’Italia parla di “un approccio qualitativo su un numero minore di priorità per avere più impatto sulla vita delle persone”. Una sfida che la presidenza di turno italiana si è posta e sui cui invita tutti a proseguire perché “questa è la sfida che aspetta tutti nei prossimi anni: dare risultati concreti ai cittadini”.