Sono trascorsi solo pochi mesi da quando Matteo Renzi rispedì al mittente, e senza troppi giri di parole, i ripetuti diktat del presidente della Bundesbank Jens Weidmann all’Italia in materia di riforme strutturali e vincoli di bilancio, ricordandogli che “il compito della Bundesbank è assicurare il proprio obiettivo statutario, non partecipare al dibattito politico italiano”. Era l’inizio del semestre italiano di presidenza Ue. Oggi, alla fine del semestre, Renzi dovrebbe ripeterlo ancora una volta, visto che in una recente intervista concessa a Repubblica, Weidmann è tornato nuovamente a “partecipare al dibattito politico italiano”.
I contenuti sono perlopiù gli stessi a cui il falco della Buba ci ha abituati da quattro anni a questa parte: la bontà dell’austerità fiscale; l’importanza di applicare le regole europee in maniera più “restrittiva” di quanto fatto finora; la necessità di riforme strutturali sul fronte dell’offerta e delle privatizzazioni (“un importante elemento del consolidamento del bilancio”) – su cui Weidmann riconosce al governo italiano di aver fatto passi importanti (il “Jobs Act”) ma non ancora sufficienti –; l’impossibilità di una politica di investimenti pubblici, a causa dell’alto livello di debito pubblico dell’Italia, e via discorrendo. Il banchiere tedesco, in sostanza, non vede alcun motivo per ripensare la politica economica perseguita finora dall’eurozona: non la disoccupazione che ha raggiunto i livelli più alti dall’unità d’Italia, non la deflazione alle porte, non una recessione che dura ormai da sei anni, non l’avanzata dei vari no-euro e ni-euro (visitando l’Italia, Weidmann dice di non aver colto sentimenti anti-tedeschi), non il rischio concreto di un’esplosione dell’eurozona.
Una mezza novità nell’intervista c’è, però, e riguarda il quantitative easing: pur ribadendo la sua contrarietà, Weidmann ha detto che l’acquisto di titoli sovrani non è vietato dai trattati, e che l’eventuale decisione di ricorrervi da parte della Bce non ha bisogno dell’unanimità del Consiglio della banca centrale, e potrebbe anche essere presa a maggioranza. È una dichiarazione che si avvicina molto a un “via libera” politico a un programma di QE, anche se questo sarà probabilmente accompagnato da una sua opposizione “formale” allo stesso (in sede di votazione). La parte più interessante dell’intervista, però, è quella in cui Weidmann motiva la sua contrarietà al quantitative easing. C’è la giustificazione economica – ossia l’ostinato rifiuto delle autorità monetarie tedesche di riconoscere che la causa principale della deflazione nell’eurozona è una carenza di domanda, un fatto ormai riconosciuto praticamente da tutti all’infuori della Germania; secondo Weidmann, infatti, “la bassa inflazione è da ricondurre al forte calo dei prezzi energetici, quindi non c’è necessità vincolante di reagire” (!) – ma questa l’avevamo già sentita (e smentita più volte).
C’è poi la giustificazione politica: ossia che l’acquisto di titoli sovrani nell’eurozona sarebbe più rischioso che in altre aree monetarie, come gli Usa e il Giappone, perché gli stati membri dell’area euro possiedono politiche finanziarie indipendenti e rating sui debiti sovrani diversi (il famoso “spread”); questo esporrebbe gli stati più solidi (come la Germania) al rischio di perdite, attraverso la propria partecipazione al capitale della Bce, in caso di insolvenza da parte degli stati più fragili (come l’Italia o la Grecia). Questa argomentazione, però, si basa su un’errata interpretazione di come funzionano le banche centrali: fintanto che una banca centrale ha il potere di emettere moneta, essa non può “andare sotto”, poiché all’occasione può sempre creare il denaro di cui ha bisogno (senza che questo rappresenti un “costo” per gli stati membri che contribuiscono al capitale della banca); per lo stesso motivo, gli stati che sono “garantiti” da essa non possono fare default (purché il loro debito sia denominato nella valuta emessa dalla banca centrale, come è il caso nell’eurozona).
Inoltre, si potrebbe anche obiettare a Weidmann che le politiche fiscali degli stati membri, in virtù della ferrea architettura di governance economica istituita in seguito alla crisi, di “indipendente” ormai hanno ben poco (le finanziarie dei vari governi devono già essere pre-approvate dalla Commissione). Ma chiaramente questo non rappresenta una “garanzia” sufficiente per il presidente della Bundesbank, che infatti nell’intervista ribadisce anche un altro concetto caro ai tedeschi: ossia che un eventuale programma di quantitative easing – che rappresenterebbe un passo avanti nella trasformazione della Bce in una “normale” prestatrice di ultima istanza – creerebbe un incentivo per i paesi più indisciplinati ad indebitarsi di più e ad abbandonare la retta via delle riforme strutturali. Qui Weidmann si contraddice: se da un lato sostiene che “le banche centrali non sono governi paralleli” (per dire che non sta alla Bce risolvere la crisi dell’eurozona), dall’altro egli assegna implicitamente alla Bce un ruolo prettamente politico: usare l’enorme potere che deriva dalla sua capacità di emettere moneta per costringere i governi a implementare riforme in ambito economico, fiscale e strutturale (un fatto inaudito in qualunque altra democrazia).
L’unica maniera per risolvere questo problema di moral hazard, secondo il n.1 della banca centrale tedesca, sarebbe quello di “andare verso un’unione fiscale, con gli stati dell’eurozona che delegano parte dei loro diritti sovrani di bilancio a livello europeo”. Secondo Weidmann, però, questa opzione non gode del sostegno sufficiente degli stati membri, e dunque non è praticabile. L’unica soluzione, dunque, rimane un ulteriore rafforzamento delle regole di bilancio. Tale logica presenta due problemi. La prima è di ordine politico: scaricare sugli altri paesi dell’eurozona la “colpa” di ostacolare il completamento del processo di integrazione europeo rappresenta una lettura a dir poco parziale della realtà. Proprio chi ha cuore il futuro dell’Unione non può non rendersi conto che in un momento in cui le istituzioni europee sono più delegittimate che mai, forzare il processo di integrazione fiscale senza prima affrontare il nodo cruciale del deficit democratico di cui soffre l’Ue, non farebbe che accentuare le tendenze centrifughe che già stanno dilaniando l’Europa: un’ulteriore cessione di sovranità che non sia accompagnata da un’equivalente cessione di legittimità democratica sarebbe insostenibile da un punto di vista politico. Inoltre, alla luce degli attuali rapporti di forze in seno all’Europa, un’unione fiscale risulterebbe di fatto in un’Unione ancor più assoggettata alle politiche economiche deflattive, restrittive e mercantiliste della Germania di quanto non lo sia ora.
La seconda considerazione è di ordine economico: sostenere che proprio perché non c’è un’unione fiscale è necessario limitare l’autonomia fiscale degli stati membri rappresenta un ribaltamento totale di quello che insegna la teoria economica, nonché la storia, in materia di federazioni. È vero l’esatto contrario, infatti: solo laddove esiste uno “stato centrale” in grado di compensare le fluttuazioni asimmetriche nei vari stati membri e di redistribuire le risorse all’interno dell’unione monetaria ha senso limitare l’autonomia fiscale dei singoli stati; in caso contrario, porre vincoli di bilancio molto stringenti ai singoli paesi li priva semplicemente della capacità di rispondere alle recessioni in modo adeguato, come dimostra bene la perdurante crisi dell’eurozona (per maggiori informazioni, vedi qui). Insistere su questa strada, come fa Weidmann – rafforzare i vincoli di bilancio finché non si arriva all’unione fiscale – vuol dire continuare a mettere il carro prima dei buoi, con conseguenze che non potranno che essere devastanti.
Che fare dunque? Il primo passo non può che essere quello di posizionare finalmente i buoi davanti al carro, in modo che possano trascinarlo fuori dalla palude in cui si trova: o permettendo ai singoli stati di perseguire politiche fiscali più espansive (come sostiene Richard Koo), o delegando tale stimolo direttamente alla Bce, per mezzo della Banca europea per gli investimenti (come sostengono Yanis Varoufakis e molti altri); questo non solo ridarebbe fiato alle economie europee, ma restituirebbe anche ai cittadini un po’ di fiducia nella bontà del processo di integrazione europea, creando le condizioni per il passo successivo: l’apertura di un dibattito partecipato e democratico (sia a livello politico che di società civile) sulla via migliore per proseguire sulla strada dell’unione fiscale, nella consapevolezza che in assenza di un ribaltamento del paradigma ideologico dominante, rischiamo di ritrovarci con un’unione fiscale tanto austera quanto l’Unione attuale. Questo, ovviamente, richiederebbe, in paesi come l’Italia, la presenza di una classe politica ed intellettuale capace di salvaguardare gli interessi nazionali dei singoli stati, man mano che si va avanti nel processo di integrazione.
Purtroppo al momento questo è assente. Basti vedere la stile con cui il giornalista di Repubblica ha condotto l’intervista a Weidmann o l’editoriale di Scalfari a margine dell’intervista, in cui il fondatore del giornale sposa quasi per intero le argomentazioni della Bundesbank. Forse bisognerebbe ricordare a Scalfari e ai suoi dipendenti che il giornale per cui scrivono si chiama la Repubblica e non die Republik. E che i politici che l’unione monetaria l’hanno costruita (come Guido Carli) avevano ben chiaro in mente che il perseguimento di una sana e “patriottica” politica di interesse nazionale da parte dei singoli stati membri – inquadrata all’interno di una dialettica europea, consapevole del fatto che gli stati europei hanno interessi sia convergenti che divergenti – non solo non era in contraddizione col processo di unificazione ma anzi ne era una condizione necessaria. Pena l’inevitabile asservimento del processo di integrazione alla logica egemonica del passato.