Jean-Claude Juncker sta ridisegnando l’Unione europea. Dopo la decisione di cancellare un centinaia di progetti ai quali la Commissione europea stava lavorando da anni e concentrando il suo impegno solo su poco più di venti proposte, il lussemburghese, con l’aiuto dell’olandese Frans Timmermans e l’appoggio politico esplicito della presidenza italiana e, è lecito supporre, di Germania e Francia, sta rivoluzionando la forma di governo dell’Unione. Senza toccare i Trattati, e, cosa non banale, compattando attorno a se i Paesi fondatori della Comunità, che poi è diventata l’Unione.
Dopo anni di sbandamenti, nei quali anche il nucleo centrale propulsivo dei sei paesi fondatori si è trovato spesso diviso su fronti opposti, ecco che, senza una vera dichiarazione di intenti generale, si sta portando l’Unione verso il suo domani. Nel senso auspicato da molti, anche se non da tutti, e in un senso che è plasmabile, che non pregiudica eventuali nuove scelte che vadano nel senso di una maggiore o minore integrazione. Quel che sta facendo Juncker è lavorare a rendere l’Unione più efficiente e più rispondente alle esigenze di un mondo che è cambiato, ovviamente dal tempo dei Trattati di Roma, ma anche da quello, difficile e incompiuto, del molto più recente Trattato di Lisbona. Anche il polacco Donald Tusk, presidente permanente del Consiglio europeo sembra remare nella stessa direzione, con il suo primo atto simbolico di conclusioni del consiglio stringate, che vanno dritte al punto, senza bizantinismi e senza la retorica da giuristi-azzeccacarbugli cui eravamo abituati.
La prima mossa di Juncker, nata evidentemente in un clima favorevole tra la maggioranza dei governi e con il supporto italiano (Sandro Gozi, sottosegretario agli Affari europei ne parlava da mesi prima della formazione del nuovo esecutivo), è stata quella di creare un “gabinetto”. I commissari sono tanti, probabilmente troppi. Ventotto “ministri” non ci sono più in nessun governo di un Paese democratico, ma non è stato, né forse sarà possibile, ridurli. L’orgoglio nazionale di tanti, in particolare tra i “piccoli” membri dell’Unione non lo ha consentito in passato e probabilmente non lo consentirà in futuro. E forse è anche giusto che ogni “azionista” abbia un posto di rilievo nel “board”. Però bisogna anche fare in modo che il board funzioni, che non si impantani, che non si perda in mille veti. E allora nasce il gruppo dei vicepresidenti, commissari un po’ più commissari degli altri, che coordinano aree tematiche, ai quali i commissari non vicepresidenti devono fare riferimento. Il colpo di genio di Juncker, che è però anche la sua scommessa, è stato quello di mettere solo rappresentanti di Paesi piccoli in questo gruppo, tranne uno, l’Italia. Ma ci sta, non può essere un gruppo di ostracismo verso i Paesi più popolosi e ricchi. La composizione non è, ovviamente, stata studiata a caso: ci sono rappresentanti di tre paesi fondatori, poi della “nuova Europa” dell’Est e dei nordici. Sembra voler dimostrare, il lussemburghese, che ridurre il numero di “grandi decisori” non vuol dire far fuori i “piccoli”. Quel che conta sono le spinte politiche, le maggioranze che sostengono la Commissione tutta.
Certo è una scommessa, per ora. Non ci sono regole scritte su questo, non ci sono neanche i funzionari per mandare avanti tecnicamente il nuovo apparato, e li si stanno selezionando ora. Molto dipenderà dal carisma dei singoli, dalla assertività di vicepresidenti e di commissari, ma il percorso è tracciato.
Poi il secondo passo, necessario, è quello compiuto martedì 16 al Parlamento europeo, quando si è annunciato il programma di lavoro della nuova Commissione per il 2015. Qui si deve prescindere dall’analisi dei contenuti politici delle scelte fatte, questa è una commissione a stragrande maggioranza conservatrice e dunque le scelte sono quelle. Quel che conta è il quadro istituzionale che Juncker e Timmermans stanno delineando. E questo è quello di una Unione che si concentra sulle cose possibili da fare, sulle cose che ha senso regolare a livello centrale, lasciando all’autonomia degli Stati di regolare quel che è meglio, più efficiente, forse più democratico, regolare a livello nazionale. Certo qui, in assenza di regole scritte, si può facilmente cadere in condizioni opposte, si può andare verso una deregulation che favorisce le grandi imprese o verso vincoli generali più stretti, ma questo è il gioco della democrazia, che vince fa la sua politica. Ma, ripetiamo, quel che conta è il quadro istituzionale che si sta disegnando.
L’obiettivo sembra essere quello di un quadro istituzionale creato di fatto, anche se nel rispetto delle norme esistenti, un’Unione più efficiente, che si vincola, anche strettamente, sulle materie che ha senso regolare a Bruxelles, come ad esempio il sistema bancario, o, ovviamente, il mercato unico, o le politiche fiscali o di bilancio. Il tutto con un esecutivo sostanzialmente più smilzo, più efficiente, più capace di portare a termine le proposte e di non perdersi e sprecare energie in questioni che, come sono alcune delle proposte che Juncker ha deciso di abbandonare, pendono dal 1998 consumando energie e soldi senza approdare da nessuna parte.
Ci sono anche aspetti, nelle sce,lte di Juncker, che non sembrano avere molto respiro, come la scelta di mettere a capo del Bepa, il “think thank” interno della Commissione, con una persona estranea (anzi proprio non riconosciuta come collega) al giro dei centri di ricerca brussellesi; c’è un servizio stampa troppo ridotto e carico di lavoro che sembra rispecchiare una scarsa volontà di comunicare e farsi capire; c’è un piano per gli investimenti che sembra fatto apposta per distrarre l’attenzione da altre cose e non essere destinato ad avere successo perché troppo ambizioso. Però sul piano istituzionale una scommessa è stata fatta. Vedremo solo con il tempo se c’è vera determinazione, e se funzionerà.