Jean-Claude Juncker sta giocando una partita difficile in Europa. Vitale. Le sue minacce, che tali in realtà non sono, a Italia e Francia sono invece, in buona parte se non principalmente, le grida di un uomo che si è giocato tutta la sua presidenza della Commissione europea in questi primi cinque mesi, trovandosi tra i piedi anche la complessa faccenda di LuxLeaks.
Angela Merkel non lo voleva lì dove è ora. Non lo voleva candidare come leader dei popolari e poi ha tentato di disarcionarlo anche quando il lussemburghese, pur perdendo milioni di voti, riuscì a confermare il Ppe quale primo partito europeo (e non era per niente scontato) e dunque rivendicò l’incarico di presidente della Commissione. Anche se lui, probabilmente, avrebbe preferito quello meno problematico e meno impegnativo di presidente del Consiglio europeo.
I fatti lo costrinsero a diventare presidente della Commissione, solidamente circondato da tedeschi nei posti giusti, primo fra tutti a capo del suo gabinetto. Epperò Juncker ha tentato di smarcarsi. Non tanto per una sua volontà combattiva, non lo è, quanto perché le pressioni dei socialisti erano forti perché ci fosse un significativo cambio nella politica economica dell’Unione e tanto perché, in fondo lui non ci sta a fare il “pupazzo” in mano a Merkel. Certo, lo abbiamo scritto, Juncker non è il nuovo che avanza, è un uomo che ha vissuto tutta la stagione dell’austerità da protagonista, anche se non sempre convinto, è stato un premier conservatore, protezionista e forse anche ha violato le norme comuni per arricchire il suo popolo (ma, in fondo, dice lui, io del Lussemburgo mi dovevo occupare e il mio piccolo paese non ha molte strade per competere). Però è anche un uomo con la sua personalità spiccata, che ha una sua idea d’Europa, che spesso non coincide con quella tedesca, e, strano a dirsi, a suo modo è molto attento all’impatto sociale delle politiche.
Fallimento delle politiche di austerità, pressioni dei socialisti e della sinistra, forte presenza di forze populiste che comunque rappresentano persone alle quali una risposta va data, tendenza naturale al negoziato e non allo scontro, Juncker con il suo braccio destro Frans Timmermans e il beneplacito degli atri, fino ad ora impalpabili, vice presidenti economici (e il deciso favore del francese Pierre Moscovici) dunque ha deciso la mossa del cavallo. Ha scartato di lato ed ha promosso le leggi di stabilità di Francia e Italia che, diciamoci le cose sinceramente, non lo meritavano, rinviando l’esame finale prima di un mese, dall’inizio alla fine di novembre, e poi di altri tre, sino all’inizio di marzo. Lo ha spiegato proprio nell’intervista al quotidiano tedesco nella quale minaccia conseguenze pesanti se Italia e Francia falliranno: io, ha detto, avrei potuto applicare le regole e aprire subito delle procedure, ma che ne avrei guadagnato? Preferisco dare un po’ di tempo a due governi che si sono impegnati su un programma per vedere se davvero riescono a metterlo in piedi. E’ ragionevole, tre mesi non cambiano nulla a nessuno, ma possono essere decisivi in certi momenti per vedere se si è imboccata la strada giusta. Altrimenti si torna indietro e pace, partono le procedure.
Se Parigi e Roma falliranno però il fallimento sarà anche quello di Juncker, nello specifico per aver dato fiducia e a livello politico perché la Germania, che non ha amato questo “tempo supplementare”, a quel punto potrà dire che la scelta del dialogo è quella sbagliata, che si deve fare come dice Berlino, e da marzo in poi la legislatura tornerebbe in mano ad Angela Merkel, come è stato con Josè-Manuel Barroso. Il sogno (pur enormemente ridimensionato, ridotto quasi a sospiro) di una nuova politica economica europea, ma poi in prospettiva non solo questo, svanirebbe, si aprirebbero le porte ad un’Europa a due velocità, nella quale poi l’Italia probabilmente sarà in quella che segue.
Juncker dunque si è giocato la sua carta, per reagire allo scandalo che l’ha travolto in Lussemburgo e trovare sia partner che lo sostengano contro chi lo vuole dimissionario, sia un suo spazio politico autonomo. Se Roma fallisce fallisce anche lui, ed è per questo che, con tanta forza, spinge perché le riforme si facciano.