Dei vari appuntamenti che sono soliti scandire con la regolarità rassicurante che è tipica della routine il calendario della diplomazia internazionale, quello di inizio dicembre della riunione dei Ministri degli Esteri dell’Organizzazione per la Sicurezza e Cooperazione in Europa (OSCE) passava tradizionalmente inosservato. Ha rappresentato in parte un’eccezione la riunione ministeriale di quest’anno. La crisi ucraina è evidentemente il fattore principale di questo inatteso ritorno d’attenzione e visibilità per un’organizzazione che – un po’ come la NATO, altra beneficiaria indiretta (e involontaria) delle risorgenti tensioni Est-Ovest – negli anni trascorsi era alle prese con una crisi d’identità di stampo pirandelliano.
Ed è innegabile che, in un contesto in cui il rischio di escalation del confronto con la Russia si ripresenta come un’eventualità tutt’altro che remota, l’Organizzazione che vide la luce a Helsinki poco meno di quarant’anni fa dispone di un valore aggiunto prezioso e difficilmente sostituibile. Primo fra tutti, quello di essere l’unico foro per le questioni di sicurezza sul continente europeo in cui USA, Russia ed Europa siedano attorno allo stesso tavolo. Un beneficio almeno potenziale di non poco conto, se si rammenta che all’origine della crisi vi è anche una domanda russa di lunga data di ridiscutere assetti ed equilibri di sicurezza europei, rimasta a tutt’oggi senza risposta; e ancor più se si tiene presente che, con l’espulsione della Russia dal G-8 (ridivenuto G-7) seguita all’annessione russa della Crimea, le istanze di dialogo con Mosca si sono drasticamente ridotte. E va dato atto all’OSCE di aver fatto del suo meglio per dare un contributo attivo e intelligente (non sempre i due aggettivi procedono di pari passo), se non alla soluzione della crisi, quanto meno ad una sua gestione più accorta. Merito in primo luogo della Presidenza in esercizio svizzera, il cui mandato si avvia a conclusione con la fine del 2014 per essere rilevato dalla Serbia nel 2015. Si deve in buona misura all’iniziativa svizzera – un modello di azione equilibrata e sagace che altre diplomazie, nazionali e no (a cominciare dal SEAE) dovrebbero prendere ad esempio – oltre che all’intermittente dialogo diretto tra i Presidenti russo e ucraino, se nel mese di settembre fu raggiunta un’intesa per la de-escalation del conflitto nell’Ucraina orientale nota come accordi di Minsk. Un’intesa fragile se non precaria, alla cui attuazione sono dedicati gli sforzi di un gruppo di contatto presieduto per conto dell’OSCE da una brillante diplomatica svizzera dal cognome e ascendenze italiane, Heidi Tagliavini, che con buona probabilità proseguirà nel suo attuale (ingrato) incarico anche dopo che il suo Paese avrà smesso di esercitare la Presidenza di turno.
Il ritorno in voga dell’OSCE è testimoniato in maniera abbastanza evidente, e forse politicamente ancor più significativa, dalla circostanza che la Germania ha presentato la propria candidatura a succedere alla Serbia nella Presidenza dell’Organizzazione nel 2016: un chiaro investimento di credibilità e capitale politico da parte di un Paese indiscutibilmente di peso.
La Presidenza tedesca coinciderà con un appuntamento importante nella vita dell’Organizzazione. L’anno prossimo ricorrerà il quarantesimo anniversario degli Accordi di Helsinki e alla luce degli avvenimenti più recenti la ricorrenza appare una circostanza propizia per un rilancio non solo simbolico ma sostanziale dell’Organizzazione che ha avuto il merito storico di preparare la strada al dissolvimento di cortine e muri che prima di allora apparivano inossidabili. Nel linguaggio della diplomazia multilaterale, il processo di rilancio ha già un nome – ‘Helsinki +40 process’ (da un punto di vista estetico, non certo la più elegante delle designazioni, ma non da oggi l’esprit de finesse ha smesso di frequentare i corridoi un tempo felpati della diplomazia). Si preannuncia inoltre una commissione di saggi – ‘panel of eminent persons’ – per esaminare ed elaborare proposte di rilancio, e anche in questo caso è da attendersi un significativo contributo della Germania, che non a torto attribuisce alle aperture di Helsinki una porzione non trascurabile di merito per la sua riunificazione.
Nelle circostanze attuali, questi progetti appaiono tanto ambiziosi in teoria quanto di difficile attuabilità in pratica. La crisi ucraina, le reazioni e controreazioni di ambo le parti hanno alimentato un clima di sfiducia e sospetti reciproci che non accenna ad attenuarsi, anzi. L’OSCE ha come propria vocazione primaria la costruzione di fiducia (confidence-building) ma nel contesto attuale, in cui la fiducia viene di continuo erosa, un compito del genere pare pericolosamente simile alla mitologica fatica di Sisifo.
A meno che non si riscopra la formula per certi versi magica che è all’origine del successo storico dell’Organizzazione. La chiave di volta dell’accordo nel 1975 fu infatti il riconoscimento da parte dei negoziatori occidentali dello status quo nell’Europa orientale: ovvero di quella dominazione sovietica che pure l’Occidente avversava. Questa circostanza, abbinata ai contatti ‘people-to-people’ previsti dal cosiddetto terzo paniere (‘human dimension’) della Conferenza di Helsinki fu la scintilla che innescò le trasformazioni giunte a maturazione un quarto di secolo dopo.
Di ciò sono certamente consapevoli le personalità eminenti che faranno parte della commissione che l’OSCE si appresta a costituire. Per parafrasare, ribaltandolo, il celebre assioma del Gattopardo: a volte, in politica estera almeno, non cambiare nulla in superficie puo’ essere una ricetta efficace per produrre i cambiamenti più profondi e durevoli.