di Giorgio Garbasso
Entro la fine dell’anno, la Commissione europea renderà pubblici i dati delle consultazioni circa il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e stato, meglio noto con l’acronimo anglosassone Isds (Investor-state dispute settlement). Le consultazioni hanno registrato un enorme interesse sia da parte del mondo delle imprese che della società civile. In soli tre mesi ben 150,000 domande e commenti sono giunti alla Commissione.
La questione è se tale meccanismo debba essere inserito o meno nel capitolo investimenti dell’accordo di libero scambio che l’Unione europea sta negoziando con gli Stati Uniti, il Ttip. L’Isds è ormai una pratica consolidata nella politica internazionale degli investimenti. Ci si chiede dunque: come si è arrivati ad avere più di 3,400 accordi bilaterali nel mondo, pressoché tutti con un dispositivo Isds, e iniziare a sorprendercene solo adesso? Il meccanismo di risoluzione delle controversie investitore-stato ha una lunga storia. E la storia resta sempre il mezzo più autorevole per spiegare gli infiniti risvolti del presente.
Verso la fine degli anni cinquanta e durante i sessanta, nel travagliato periodo della decolonizzazione, i paesi meno sviluppati procedevano alle nazionalizzazioni delle imprese straniere per riassumere il controllo delle proprie risorse naturali. Durante questa fase di transizione verso uno stato di diritto, il forte, comprensibile risentimento delle autorità locali nei confronti di ogni interferenza fu causa di numerose espropriazioni ai danni di aziende e imprese straniere. Il protezionismo economico sembrava la migliore moneta per ricambiare i colonizzatori della loro lunga “visita”.
Questo indusse gli europei a escogitare nuovi sistemi per proteggere i propri interessi. Fu così concepito il primo meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitori e stati. Un sistema agile che permetteva di non ingombrare la via diplomatica con lunghe e complicate dispute internazionali tra governi. Offriva infatti a un’impresa la possibilità di fare causa a uno stato senza rischiare di essere giudicata dallo stesso stato che l’aveva espropriata dal proprio investimento, aggirando perciò ogni rischio di politicizzazione del procedimento.
In questo contesto storico si poteva in un certo senso ancora giustificare l’introduzione di un dispositivo legale che permettesse agli investitori di reclamare risarcimenti. Ma l’ecosistema degli investimenti internazionali è completamente mutato. Oggi non solo quei paesi hanno aperto le proprie economie agli investimenti stranieri, con una netta diminuzione, a partire dagli anni ottanta, del numero di espropriazioni, ma cercano di attirare quanto più possibile capitali esteri, diventando a volte loro stessi esportatori di capitali. Se negli anni sessanta si contava un totale di 136 espropriazioni, e negli anni settanta si arrivò a ben 423, negli anni ottanta si scese a 17, che divennero 22 negli anni novanta.
Curiosamente è negli ultimi trent’anni che questo strumento giuridico è diventato il comune denominatore delle politiche internazionali d’investimento. Non solo lo si include negli accordi tra paesi ricchi e paesi poveri ma con il Nafta (un accordo commerciale multilaterale tra Canada, Stati Uniti e Messico) si è creato il precedente per accordi di investimento a forte protezione legale anche tra democrazie avanzate. L’inserimento dell’Isds nel patto commerciale transatlantico si iscrive pienamente in questa logica.
E se c’è chi è tentato di spiegare l’impennata dei casi registrati con l’aumento del volume degli investimenti internazionali, che negli ultimi decenni si è moltiplicato con ritmi incessanti, quello che sorprende è la tipologia dei casi registrati e l’espansione di una vera e propria industria internazionale dell’arbitraggio.
Alcuni casi quantomeno curiosi ben descrivono splendori e miserie di tale meccanismo. Avvocati famosi di grandi multinazionali adoperano tutto il loro ingegno per sfruttare i vuoti giuridici di una definizione troppo vaga dei principi fondamentali degli investimenti, come la “non discriminazione”, l’“espropriazione indiretta” o il “trattamento giusto ed equo”. L’azienda americana Lone Pine fa causa allo stato canadese per aver vietato il fracking di gas di scisto. La Philip Morris fa causa al governo australiano per aver messo in atto una politica contro il fumo che la esproprierebbe della sua “proprietà intellettuale”.
Chi si oppone all’Isds lo considera o uno strumento inutile o uno strumento illegittimo.
Secondo i sostenitori del primo argomento, nelle democrazie occidentali avanzate non ci sarebbe bisogno di ulteriori protezioni legali, dato che sia gli Stati Uniti che l’Unione europea hanno un sistema solido e sviluppato di risoluzione delle dispute investitore-stato, e la macchina giuridica dei rispettivi stati sovrani può definirsi neutra e imparziale. Che bisogno c’è dunque di far ricorso a un tribunale privato esterno? I difensori del meccanismo rispondono indicandone i vantaggi per gli investitori in termini di efficacia, rapidità e certezza del quadro legale. Ma si tratta di argomentazioni insufficienti a respingere ogni obiezione di carattere politico-morale riguardo alla legittimità di tale organismo.
Andando al nocciolo del problema: si dà la possibilità a un’impresa (spesso un’impresa con un volume di affari enorme) di fare appello, tramite un tribunale esterno istituito allo scopo, contro ogni legge, decisione e politica a ogni livello, locale, nazionale o europeo. Questa funzione equivale alla capacità di controllo giudiziario di una corte suprema.
L’internazionalizzazione della giustizia non è in sé un fatto nuovo. La Corte internazionale di giustizia e la Corte di giustizia dell’Unione europea, con sede in Lussemburgo, costituiscono entrambe una limitazione della sovranità nazionale a vantaggio di entità sovranazionali. Il problema quindi non è tanto la delega delle funzioni statali. Il problema è che stiamo privatizzando il diritto pubblico internazionale. A chi e per quale motivo stiamo dando nuove autorità di controllo giudiziario? Quale è la portata del potere che stiamo delegando? Quali obbligazioni stiamo creando? La risposta a queste domande è di vitale importanza.