La situazione dell’Europa – e in particolare dell’eurozona – è sempre più paradossale. Da un lato, di fronte alla crisi più lunga e pesante che l’Ue abbia mai attraversato, non si parla altro che di crescita, investimenti, occupazione; dall’altro, però, si difende strenuamente l’attuale assetto dell’unione monetaria, che è esattamente quello che rende strutturalmente irraggiungibili quegli stessi obiettivi. Agli stati membri viene chiesto di insistere sulla strada dell’austerità e delle riforme strutturali – la causa principale della crisi in corso (ormai lo sostiene anche Prodi) –, in cambio di presunte misure “federali” che dovrebbero controbilanciare gli effetti delle politiche restrittive perseguite a livello nazionale. Ma le misure messe in campo finora a livello europeo non si avvicinano neanche lontanamente a quello stimolo fiscale e monetario di cui ci sarebbe bisogno per trascinare l’Europa fuori dalla stagnazione (o recessione, nel caso dell’Italia e di altri paesi), dalla deflazione e dalla disoccupazione di massa. E anzi sembrano semplicemente “una scusa per continuare a portare avanti le politiche di austerità”, come ha dichiarato di recente l’autorevole economista Charles Wyplosz. Lo dimostra la timida apertura della Bce al quantitative easing – una misura che se non è accompagnata da politiche fiscali espansive rischia di essere del tutto inutile, se non addirittura controproducente, e che comunque continua ad incontrare le resistenze della Germania –, ma ancor più il “risibile” (parola dell’Economist) piano di investimenti di Juncker (vedi qui).
Risulta ormai sempre più evidente che il “normale” iter istituzionale dell’eurozona – dilaniato da interessi economici, fondamentali macroeconomici e posizioni ideologiche fortemente divergenti tra loro, e contraddistinto da un sistema di governance economica talmente complesso ed ingarbugliato da essere di fatto “segregato” dalla politica (è lecito sospettare che i politici nazionali che ne comprendano il funzionamento si contino sulle dita di una mano) – non sarà capace di produrre le soluzioni necessarie, o di farlo in tempo utile, per evitare una potenziale implosione della zona euro o, nella migliore delle ipotesi, come ha dichiarato di recente l’Ocse, una depressione di lungo periodo caratterizzata da tensioni sociali e politiche sempre più acute (è di qualche giorno fa la notizia secondo cui la disoccupazione, qui da noi, avrebbe raggiunto il livello più alto dall’unità d’Italia). Perfino il commissario uscente per le politiche sociali e l’occupazione, László Andor, ha definito l’attuale assetto dell’unione monetaria come “insostenibile”. E Wolfgang Münchau ha recentemente scritto che la fine dell’euro è più vicina oggi di quanto non lo fosse due anni fa.
In questo senso, la vera spaccatura oggi in Europa non è tra “europeisti” e “anti-europeisti”, ma tra coloro che in nome della “responsabilità” invocano il rispetto delle regole attuali – quelle stesse regole che stanno condannando l’Europa ad una lenta morte per asfissia – o al massimo qualche piccola correzione di tiro (vedi tutto il dibattito sulla “flessibilità”), e che ormai assomigliano sempre più a quei passeggeri di prima classe del Titanic che continuarono a ballare e a discutere amabilmente mentre la pancia della nave si riempiva di acqua, e coloro che si rendono conto che l’unica via d’uscita dalla crisi – e conseguentemente la sopravvivenza dell’unione monetaria – passa necessariamente per una rottura radicale con le regole attuali (che, attenzione, non vuol dire una fuoriuscita dall’euro). Curiosamente, sono proprio questi ultimi – che a ben vedere hanno una posizione ben più “responsabile” dei primi – ad essere accusati di essere “disfattisti” e “anti-europei”. È un paradosso che ha rilevato anche Münchau in un recente editoriale, in cui notava come siano proprio i grandi partiti europei di centro-sinistra e di centro-destra che stanno permettendo “la deriva dell’Europa verso l’equivalente economico di un inverno nucleare”, e che gli unici partiti del continente che propongono ciò che è il “consenso” tra gli economisti per risolvere la crisi dell’area euro senza spaccarlo – ossia grandi investimenti pubblici e una ristrutturazione controllata dei debiti – siano proprio i “pericolosi” partiti della sinistra radicale (come Syriza in Grecia, Podemos in Spagna e Die Linke in Germania).
Poiché oggi la sinistra radicale in Italia è pressoché inesistente, ci permettiamo di suggerire al governo Renzi una soluzione “radicale” per uscire dall’impasse attuale, che permetterebbe in un colpo solo al giovane premier di rilanciare la domanda in Italia (e di ridare fiato anche al resto dell’eurozona, offrendo una speranza di salvezza all’unione monetaria), di indicare una via ai partiti di sinistra che potrebbero presto trovarsi alla guida di importanti paesi del Mediterraneo, di imporre con forza – a questo punto sembra l’unica soluzione possibile – alla Germania e agli paesi del “centro” la necessaria revisione dell’architettura dell’unione monetaria, e di proporre un’alternativa credibile alla retorica no-euro di Salvini e ni-euro di Berlusconi (vedi la sua recente proposta per una seconda moneta nazionale da affiancare all’euro).
Tale soluzione si basa su uno strumento tenuto quasi segreto dalla Bce e dalle banche centrali nazionali, chiamato Emergency Liquidity Assistance (Ela). Trattasi di uno strumento, previsto dall’articolo 14.4 dello statuto del Sistema europeo di banche centrali (Sebc), che consente alle banche centrali nazionali di stampare moneta – come dice il nome, in caso di emergenza – senza che tale operazione rientri nel quadro della politica monetaria unitaria europea. Per la Banca d’Italia (e tutte le altre banche centrali) il potere di usare l’Ela non deriva dalla sua partecipazione al Sebc, ma la decisione può essere presa indipendentemente e di propria iniziativa. Da un punto di vista legale, fino a poco tempo fa circolava in rete un documento (Buiter, Michels e Rahbari, “ELA: An Emperor without clothes”, gennaio 2011), ora scomparso, che sosteneva con una certa convinzione che le normative e le decisioni rispetto all’Ela dovrebbero essere prese dai governi nazionali di concerto con le banche centrali nazionali.
Quello che è chiaro, tuttavia, è che l’articolo 14.4 dello statuto del Sebc attribuisce al Consiglio direttivo della Bce la competenza di limitare le operazioni di Ela qualora valuti che esse interferiscano con gli obiettivi e i compiti dell’Eurosistema. Le decisioni al riguardo dell’Ela debbono essere adottate dal Consiglio direttivo della Bce a maggioranza dei due terzi.
Abbiamo messo in grassetto la frase poiché riteniamo non solo che oggi questa via debba essere seguita, ma che è l’unica che potrebbe consentire, in tempi utili, alla Bce di raggiungere quelli che sono i suoi obiettivi statutari attuali (raggiungere un’inflazione del 2%), senza interferire assolutamente con i suoi compiti, e anzi fornendo uno strumento aggiuntivo per tirare la Bce fuori dalla palude in cui è caduta, alla luce della palese inefficacia della politica monetaria in un contesto di stagnazione-deflazione (stag-deflazione) come quello in cui si trova l’eurozona.
Qualcuno potrebbe alzare la mano e dire: ma guardate che l’Ela non può essere usata per finanziare il Tesoro, ma solo le banche in difficoltà! Questo non è del tutto vero. Poiché l’Ela è il più segreto degli strumenti finanziari, sono scarse le notizie sul suo uso. A livello aggregato, da quello che abbiamo potuto scoprire, le operazioni legate all’Ela non sono riportate nemmeno dalla Bce. Bisognerebbe andarsi a spulciare i bilanci di ogni singola banca centrale. Qualcosa però è trapelato. Un economista danese, Claus Vistesen, ha raccontato alcuni casi. Sembra che la prima banca centrale a fare un uso regolare e all’interno dell’interpretazione della Bce dell’Ela sia stata proprio la Bundesbank per salvare la Hypo Real Estate nel 2008 (per 42 miliardi di euro), seguita dalla banca centrale del Belgio nel 2009 per salvare Fortis Bank (54 miliardi). Attenzione, però, perché ci sono degli strani precedenti. Sia l’Irlanda che la Grecia lo avrebbero usato nel periodo 2008-10 per compiti ben diversi. Da quello che racconta Vistesen, i due paesi hanno fatto un uso costante di questo strumento per finanziare le esigenze immediate e improcrastinabili del Tesoro senza che fosse ben specificato verso quali banche i fondi fossero indirizzati.
L’Italia – che si trova chiaramente in uno stato di “emergenza” – potrebbe fare lo stesso, implementando l’Ela questa settimana stessa, se lo volesse, con l’obiettivo di attuare uno stimolo fiscale di emergenza a sostegno della domanda. Ecco come:
- Alle ore 16 di venerdì, la Banca d’Italia informa la Bce che ha deciso in modo del tutto indipendente di attivare un’Ela per 50 miliardi (poiché la Bce è a Francoforte, bisogna rispettare i regolamenti, e quello della Bce è chiaro: di regola le banche centrali nazionali debbono comunicare alla Bce i dettagli per gli importi approvati al più tardi entro due giorni lavorativi dopo lo svolgimento dell’operazione, ma per l’importo proposto dalla Banca d’Italia è necessario informare la Bce “anteriormente all’erogazione dell’assistenza che si intende concedere”).
- Alle ore 17, mentre il governo annuncia in conferenza stampa che ha approvato un decreto legge di due righe in cui approva un programma di investimenti e/o sgravi fiscali da 50 miliardi, la Banca d’Italia emette un comunicato stampa in cui comunica al governo la sua disponibilità a finanziare un fiscal deficit attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro emessi sotto la finestra dell’Ela.
- La notizia rimbalzerebbe subito in tutto il mondo e nel weekend non si parlerebbe d’altro
- Il lunedì Draghi convoca d’urgenza il Consiglio direttivo della Bce. Se l’Ela è approvata (e deve essere approvata, perché altrimenti scoppierebbe un caso incredibile), subito dopo la Banca d’Italia, il governo e la Bce cominciano a discutere di come questi nuovi fondi debbano essere utilizzati. Sarebbe il governo italiano stesso a chiedere una “condizionalità”: si stabilisce ex ante come i soldi devono essere utilizzati.
- Il governo a questo punto dà istruzioni al Tesoro di emettere titoli di debito speciali non trasferibili che sarebbero acquistati dalla Banca d’Italia. La nuova moneta creata ex nihilo apparirebbe come una passività della Banca d’Italia che avrebbe al suo attivo un credito nei confronti dello stato italiano.
- I nuovi titoli dovrebbero essere a tasso zero e perpetui. La Banca d’Italia e il governo dovrebbero chiarire che l’aumento di spesa pubblica non porta a nessun aumento di spesa per interessi e dunque a tasse future più alte.
- La Bce e la Banca d’Italia dovrebbero rimanere l’arbitro che decide quando sia ora di staccare la spina, o perché il tasso di inflazione ha raggiunto l’obiettivo previsto o perché ci sono altre problematiche.
Se la Bundesbank, come è probabile, dovesse sostenere che questa terribile operazione genererà iperinflazione o altre improbabili catastrofi, la risposta dell’Italia dovrebbe essere: “Bene, allora prendetevi la responsabilità di far crollare l’euro, se ne avete il coraggio”. Considerando l’esposizione della Germania ai paesi della periferia attraverso il sistema Target2, è altamente improbabile che la Germania sceglierebbe questa strada, anche perché di controindicazioni reali, una manovra di questo genere, non ne avrebbe nessuna.
Prima di tutto, la manovra proposta dall’Italia non andrebbe contro l’Articolo 123 del Trattato di Lisbona, come hanno scritto autorevoli economisti. Cosa dice questo articolo? Che sono proibiti scoperti di conto corrente o ogni altro tipo di credito da parte della Bce o delle banche centrali nazionali nei confronti di istituzioni dell’Unione o di governi nazionali o regionali, così come è vietato l’acquisto diretto di titoli di debito dei singoli stati. Ma nel caso dell’operazione di Ela da parte della Banca d’Italia non è stato attivato né uno scoperto di conto corrente nei confronti dello stato italiano, né si sono acquistati strumenti di debito. È stato fatto un prestito a fondo perduto nell’interesse di un paese che è al collasso. Prestito che non costa nulla alla Banca d’Italia poiché produrre moneta non costa nulla. Si tratta solo di battere alcune operazioni contabili di partita doppia al computer. Se poi un giorno lo stato volesse restituire il prestito alla Banca d’Italia, questa sarebbe una scelta puramente politica: ciò potrebbe avvenire qualora ci fosse un eccesso di liquidità, per esempio. Ricordiamo anche che una banca centrale non può mai diventare illiquida e che potrebbe operare anche con un patrimonio netto negativo (vedi questo pezzo di De Grauwe a riguardo).
Il secondo punto è che, come ricorda bene il regolamento della Bce sugli Ela, qualsiasi costo e rischio derivante dalla concessione di Ela è supportato dalla Banca d’Italia. Non c’è, in sostanza, nessun rischio di mutualizzazione dei debiti perché sia i cittadini italiani che quelli tedeschi non dovranno incorrere in futuro a nessun aggravio degli interessi, né dovranno salvare nessuno.
Infine, l’argomento più forte: la misura è giustificata – sia in base al mandato della Bce che a quello del Sebc – dal fatto che, ceteris paribus, l’Italia è destinata sicuramente ad entrare in una spirale deflazionistica di lungo periodo che rischia seriamente di far crollare l’intero sistema euro. Solo cambiando veramente verso c’è qualche speranza di evitare questo scenario. In altre parole, essere veramente europeisti, oggi, vuole dire essere radicali.