di Lorenzo Consoli
Il piano di investimenti “da 300 miliardi” – di cui solo 16 di capitale pubblico, però – annunciato da Juncker per far ripartire l’economia europea è stato accolto in modo favorevole dalla maggioranza politica di centro-sinistra (Ppe, socialisti e liberali) che sostiene la Commissione nel Parlamento europeo, ma ha deluso quanti si aspettavano “soldi veri” e “soldi freschi”, invece del solito gioco di prestigio finanziario volto a moltiplicare le poche risorse messe a disposizione con strumenti che non è affatto scontato che funzionino davvero. C’è da chiedersi, tuttavia, se davvero Juncker avrebbe potuto fare di più, stanti i limiti strettissimi in cui si è trovato a operare, se davvero il piano non contenga delle novità interessanti e se, tutto sommato, non ci sia il “rischio” che comunque alla fine gli investimenti arrivino, magari in misura minore del previsto. Ecco alcuni spunti di riflessione.
1) Non si poteva fare appello al quadro finanziario pluriennale dell’Ue, già oggetto di una riduzione (per la prima volta nella storia) rispetto alla volta precedente, e sottoposto al braccio di ferro annuale fra Commissione e Parlamento da una parte, e stati membri dall’altra, per quanto riguarda i bilanci rettificativi annuali (il negoziato per i 2014 e per il 2015 è in corso, senza prospettive di andare in porto, per ora). Junker ha comunque ridestinato alle garanzie finanziarie del piano 8 miliardi dal bilancio pluriennale attuale dell’Ue (3.3 dal programma Connecting Europe sulle infrastrutture, 2.7 dal programma di ricerca Horizon e 2 dai margini annuali di bilancio), che è probabilmente il massimo che potesse fare senza stravolgere l’accordo inter-istituzionale sullo stesso bilancio pluriennale.
2) Juncker aveva anche un limite temporale strettissimo: gli investimenti servono ora e per i prossimi tre anni. Qualunque eventuale negoziato per ottenere “soldi freschi” dagli stati membri, indipendentemente dalle sue scarse possibilità di successo, sarebbe durato molti mesi, forse qualche anno, e sarebbe stato perciò stesso del tutto inutile.
3) All’inizio c’era l’idea di fare appello anche al Meccanismo europeo di stabilità (Mes), e non solo alla Banca europea per gli investimenti (Bei), per finanziare il piano: questo avrebbe costituito una novità importante e il segnale più concreto del passaggio dalla politica di stabilità di bilancio (leggi austerità), per cui è stato creato originariamente il Mes, alle politiche per la crescita. Non si è parlato molto di questo, ma è chiaro che Juncker ha trovato questa strada sbarrata dalla solita Germania e dai suoi alleati rigoristi. La questione meriterebbe un approfondimento.
4) Si è parlato anche di un possibile ruolo che avrebbe potuto avere la Bce, ma anche qui è chiaro che tedeschi e rigoristi si sarebbero stracciati le vesti.
5) Il limite di fondo del piano Juncker sta nella questione di principio secondo cui gli investimenti vanno fatti senza aumentare l’indebitamento pubblico. Questa era una condizione chiaramente posta dal Ppe (dalla sua maggioranza, almeno) e dai tedeschi, che Juncker non poteva non rispettare. È riuscito però, anche se in modo molto limitato, ad aggirarla (vedi punto 6). Inoltre, bisognava tenere conto del fatto che non si poteva contare sugli investimenti pubblici dell’unica grande economia in surplus, quella tedesca, vista l’ossessione per il feticcio del deficit zero da parte del governo e dell’opinione pubblica in quel paese.
6) La novità più importante del piano è la possibilità per gli stati membri di partecipare con contributi finanziari che resteranno fuori dal computo del deficit e debito pubblici ai fini del rispetto del Patto di Stabilità e del Fiscal Compact. È il primo serio colpo al dogma anti-keynesiano contro il deficit spending e alla rigidità estrema della gestione Rehn, che aveva per esempio reso praticamente inutilizzabile la famosa clausola sugli investimenti per l’Italia, una vera presa in giro. Va ricordato che la Commissione, nell’ottobre 2008, aveva previsto che gli stati membri, per affrontare la crisi, potessero sforare temporaneamente la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil. Questa concessione è servita soprattutto per aiutare le banche, ed è stata poi ritirata – anzi rimossa e dimenticata – quando la Germania, in cambio dell’aiuto finalmente concesso alla Grecia a maggio 2010, ha imposto la svolta dell’austerità (e, più tardi, il Fiscal Compact in cambio del Mes). Va ricordato anche che la Commissione attuale sta lavorando a una comunicazione sulla “flessibilità” che potrebbe finalmente scomputare dal Patto di Stabilità anche i co-finanziamenti nazionali ai progetti sostenuti dai fondi Ue per la coesione.
7) Il piano Juncker parte dal presupposto che la liquidità sul mercato oggi esiste (al contrario di quanto succedeva durante la fase acuta della crisi, due-tre anni fa), ma che gli investitori hanno attualmente poca attitudine al rischio, e non finanziano quindi progetti strategici che non garantiscono un ritorno sicuro degli investimenti. La scommessa è che, usando i fondi pubblici per garantire gli investimenti di rischio, gli investitori ritroveranno “l’appetito” per quei progetti e li finanzieranno. A Bruxelles, Francoforte e Lussemburgo concordano praticamente tutti su questa analisi, a partire dalla Bce e dalla Bei. Piuttosto scettica, invece, la maggior parte degli economisti e dei commentatori (vedi, per esempio, i commenti dell’Economist e del Financial Times).
8) Riguardo al tanto criticato effetto leva con moltiplicatore 15, considerato eccessivo e azzardato, sono centrali il ruolo e l’esperienza della Bei, che è stata il consulente principale per Juncker. Il suo presidente, Werner Hoyer, ha definito l’effetto leva previsto con quel moltiplicatore una stima “prudente”. L’ultima ricapitalizzazione della Bei del 2013 per 10 miliardi di euro – ha ricordato durante la conferenza stampa che è seguita alla presentazione del piano al Parlamento europeo – ha fatto aumentare il volume tendenziale dei suoi prestiti da 50 a 70 miliardi di euro all’anno e avrà generato in tre anni, alla fine del 2015, 60 miliardi di prestiti aggiuntivi, corrispondenti a investimenti totali addizionali da 180 miliardi (gli investimenti sono il triplo dei prestiti Bei). L’effetto moltiplicatore, in questo caso, ha raggiunto un fattore 18, anche maggiore del fattore 15 del piano Juncker. “Io non avrei paura”, ha concluso il presidente della Bei.
In conclusione: è vero che non ci sono “soldi veri” e “soldi freschi”, almeno per quanto riguarda i finanziamenti pubblici degli investimenti; è vero che il piano Juncker è soprattutto un progetto di ingegneria finanziaria (anche creativa) e di comunicazione; è anche vero, però, che Juncker si muoveva entro limiti strettissimi e che molto difficilmente si poteva fare di più, senza rischiare una crisi politica maggiore (la perdita dell’appoggio della maggioranza del Ppe e probabilmente dei liberali, della Germania e dei suoi alleati rigoristi). E poi chissà che il piano non riesca veramente a smuovere un po’ di soldi. Determinanti saranno comunque tutta una serie di fattori “esterni”: il programma di quantitative easing atteso dalla Bce, la crescita economica negli Stati Uniti e altrove, il prezzo molto basso del petrolio, l’euro in calo rispetto al dollaro.