Il piano di Juncker per gli investimenti è quello che chiunque, tra le persone che appena appena si occupano di cose europee, ma forse che hanno la semplice ragionevolezza del buon padre di famiglia, potevano aspettarsi. I soldi non ci sono, e o si fa come a Napoli, dove una stamperia clandestina ha messo in giro fiumi di banconote false, (tra le quali anche una da 300 euro, che, singolarmente, è stata spacciata senza problemi proprio nell’austera, ma ciecamente avida, Germania). Oppure ci vogliono altre idee. La forza del piano presentato ieri dal presidente della Commissione non è, evidentemente, in quei 13 miliardi (perché solo questi sono soldi veri, benché riciclati, che sono stati messi sul piatto). Sarebbe in malafede dunque qualsiasi analista che dicesse i soldi messi in gioco da Juncker son pochi. A meno che lo stesso analista non possa indicare con certezza dove andarli a trovare questi 300 miliardi.
La strada, è sempre stato chiaro, è quella del “volano”, quella di mettere in campo qualche soldo pubblico, qualche garanzia per i privati, e vedere quanto poi si trova sul mercato. Certo 13 miliardi sono una cifra che si potrebbe definire “ridicola” senza tema di esagerare, ma hanno una forza. Anzi, due. La prima è che segnano, come è stato notato ieri da qualche oratore in Parlamento, anche se con forse troppa enfasi, un punto di svolta politico tangibile, un segno che l’idea di investire e non solo tagliare ha fatto breccia (certo, è più facile ora che molte situazioni di bilancio molto critiche sono state sistemate). E l’altra forza è che si apre un processo virtuoso, una gara a trovare l’idea migliore per investire i soldi, e lì, veramente, si vedrà chi metterà in campo le proposte più efficienti, più ricche di prospettive, di dare una forma alla nuova Europa, che non siano fare buche e poi riempirle tanto per far lavorare qualcuno, o cementificare qualche vallata per far arricchire qualche amico. Ci vorranno idee che possano favorire stabilmente la crescita e creare altrettanto stabili posti di lavoro, oggi nelle opere per realizzare gli investimenti, domani dalla nuova situazione produttiva realizzata con questi investimenti. L’Europa economica deve ripensarsi, e questa è l’occasione di svegliarsi dal torpore, da continuare “come sempre”.
Essendo la parte pubblica così povera di soldi la sua forza deve essere dunque nelle idee, nella fantasia. Dopo aver rotto l’ultimo diaframma del tunnel verso una nuova politica di crescita si dovrà passare all’azione. Stando anche attenti a non diventare schiavi dei desideri delle aziende, che probabilmente cercheranno di pilotare gli investimenti dove meglio serve a loro, e che non è detto che coincida con quel che serve ai cittadini europei. Bisognerà insomma anche stare attenti a non fare tanto per fare, a non fare solo il possibile ma a avviare una vera strategia di sviluppo europea, che non è fatta solo di autostrade, ferrovie e tralicci, ma anche, e soprattutto forse ora, di istruzione, di ricerca, di cultura. Bisogna disegnare l’Unione del futuro.
Naturalmente sempre sperando che non vada a finire come due anni fa, quando, durante il governo Monti, e con grande soddisfazione del professore, il Consiglio europeo il 29 giugno approvò il “Growth compact”, cioè il patto per la crescita e l’occupazione nel quadro della strategia Europa 2020, che doveva far digerire il “Fiscal compact”: si stanziarono 120 miliardi di euro per la crescita e lo sviluppo. Qualcuno ne ha più sentito parlare da allora?