A distanza di qualche settimana dai risultati, clamorosi ma non inattesi, delle elezioni parlamentari intermedie negli Stati Uniti, la tentazione di stilare un giudizio sul significato politico di questa tornata elettorale, e delle ripercussioni sulla politica estera della grande superpotenza d’Oltreoceano, continua ad esercitare un fascino a cui è difficile sottrarsi.
Che una stragrande maggioranza di elettori americani abbia marcato con il proprio voto la disapprovazione delle politiche promosse dall’amministrazione Obama sembra circostanza fuori discussione. Resta da vedere, invece, se e fino a che punto nelle intenzioni di voto abbia pesato anche il giudizio negativo sulle questioni relative a ruolo e peso specifico degli USA nelle relazioni internazionali. Il carattere notoriamente introverso del dibattito politico d’oltre oceano (fotografato dall’indimenticabile slogan che scandì la marcia verso la Presidenza del primo Clinton: ‘It’s the economy, stupid!’) sembrerebbe escluderlo. Tuttavia le rilevazioni di un istituto demoscopico dei più autorevoli (il Pew Research Centre) puntano in direzione opposta: secondo un sondaggio condotto dopo le elezioni mid-term, la politica estera è risultata questione determinante (‘top issue’) per una larga maggioranza (56%) di elettori repubblicani – stando ai risultati, la maggioranza di coloro che si sono recati alle urne – e per una fetta comunque significativa (42%) di simpatizzanti democratici.
L’istituto diretto da Bruce Stokes ha certificato con la sua attendibilità quel che schiere di commentatori avevano congetturato. Ovvero all’origine della disfatta dei democratici vi sarebbero non solo l’insicurezza e la precarietà generate dai ritmi del ciclo economico che ha ulteriormente approfondito il divario tra vincitori e vinti della globalizzazione; ma anche l’insoddisfazione diffusa dell’americano medio per una postura globale percepita come titubante o, peggio ancora, arrendevole a fronte del montare di minacce vecchie e nuove.
Se la politica estera ha davvero pesato sul risultato delle elezioni, alla radice del rigetto degli americani per l’Amministrazione in carica potrebbe esserci qualcosa di più della disapprovazione per questo o quel dossier internazionale – dal mancato intervento in Siria al negoziato con l’Iran, dal fallimentare ‘reset’ con la Russia al problematico contenimento della risorgente potenza cinese. Le elezioni appena compiute potrebbero essere sintomatiche di come l’opinione pubblica in America guarda alla politica estera del proprio Paese in generale, e cosa si attende dal commander in chief di turno. Abitanti del paese delle opportunità per antonomasia, educati al mito geografico della frontiera ed a quello etico-politico del ‘pursuit of happiness’, gli americani prediligerebbero una proiezione esterna che confermi l’immagine che essi hanno di se medesimi di modello esemplare per il resto del mondo – ‘a shining city on the hill’ per riprendere la bella immagine resa celebre da uno dei Presidenti più amati dall’opinione pubblica americana, Ronald Reagan (non è un caso, va aggiunto per inciso, che la sua popolarità in patria era inversamente proporzionale a quella di cui Reagan godeva all’estero: perché quello che per gli uni è mera proposizione di un modello diventa per gli altri un’imposizione egemonica).
Per chi crede fermamente nell’eccezionalità del proprio Paese, non può esserci proposizione più eretica del tentativo di circoscrivere, se non negare il ‘destino manifesto’ preconizzato sin dai tempi di George Washington, per inaugurare una nuova stagione di cooperazione con il resto del mondo – da pari a pari, per di più.
Messa in questi termini, acquisisce una dimensione ancora più storica la sconfitta incassata da Obama poche settimane fa. E riconosciuta dallo stesso Obama ben prima che il responso delle urne arrivasse a castigarlo. Agli osservatori più attenti della retorica del Presidente americano non era sfuggito come negli ultimi mesi l’accento dei discorsi obamiani si fosse riposizionato sui temi, del primato globale del proprio Paese e della determinazione a farlo valere anche a dispetto delle circostanze se necessario, più consoni alle attese del pubblico americano. Un’inversione di rotta evidentemente tardiva, se valutata attraverso il prisma delle scadenze elettorali più immediate; e piuttosto sintomatica di un nuovo corso che sa per molti versi di ritorno all’antico, anche in vista dell’avvicendamento alla Casa Bianca ormai alle porte.
Si dirà allora che con l’avvento di un nuovo Presidente la politica estera americana avrà ritrovato quel gusto per la leadership che Obama aveva smarrito per strada; senza però rendersi conto che le basi del nuovo/vecchio corso erano state già gettate dall’Amministrazione uscente nel suo ultimo biennio. Un po’ come gli stessi esordi della Presidenza Obama sono stati all’insegna della continuità con la riscoperta della cooperazione in ambito multilaterale, e con le stesse vituperate Nazioni Unite, messa in atto da George W. Bush negli ultimi anni del suo mandato. Anche in questo caso (solo un caso?) in risposta ad una schiacciante sconfitta incassata alle midterm elections. Che sia venuto il momento di riconsiderare l’importanza di questo appuntamento elettorale, spartiacque potenziale della politica non solo americana ma globale?