Ora che Mario Draghi ha ufficialmente dichiarato che la Bce è pronta a ricorrere al quantitative easing anche qui in Europa (vedi qui), nello stesso momento in cui il programma della Federal Reserve – considerata la best practice in materia, nel bene e nel male – sta volgendo al termine, è più importante che mai capire se quest’ultima ha funzionato o meno. Ma anche, più banalmente, cosa diavolo sia stato il quantitative easing. Come sanno i nostri lettori, abbiamo già dedicato numerosi articoli al tema. Questa volta, però, cercheremo di rispondere alle domande in questione non con le parole ma con le immagini. E lo faremo con l’ausilio di alcune delle migliori infografiche apparse in queste settimana sui giornali americani, anch’essi alle presa con le stesse domande.
Partiamo dalle dimensioni dell’operazione, senza precedenti nella storia, che ha portato l’attivo della Fed, nel corso delle tre fasi del programma (QE1, QE2 e QE3), dagli 800 miliardi circa di fine 2008 ai 4.500 miliardi di dollari di oggi (e la Fed ha lasciato intendere che il livello rimarrà tale ancora per un bel po’).
Fonte: New York Times
Lo ha fatto, come sappiamo, acquistando oltre 3.500 miliardi di titoli privati ma soprattutto di buoni del Tesoro. E immettendo dunque l’equivalente in denaro (o meglio in riserve della banca centrale) – creato “dal nulla”, ovviamente – nelle banche commerciali.
Fonte: New York Times
Anche la Bce ha immesso molta liquidità nelle banche in seguito alla crisi, ma la dimensione del programma è stata molto più circoscritta rispetto a quello della Fed: se il bilancio della prima è aumentato “solo” del 300% rispetto ai livelli pre-crisi (e si è nuovamente ristretto a partire dalla fine del 2012), quello della Fed è lievitato addirittura del 700%.
Fonte: Quartz
Fin qui ci siamo limitati a parlare di dati facilmente misurabili e non opinabili. Se però vogliamo utilizzare i dati per capire quali sono stati gli effetti della politica della Fed sull’economia americana, le cose cominciano a farsi molto complicate.
Uno degli obiettivi dichiarati del QE era quello di ridurre i tassi a lungo termine offerti dalle banche alle famiglie e alle imprese dopo l’impennata nei tassi e la stretta del credito indotte dalla crisi del 2008. Ha funzionato? Dal 2009 ad oggi i tassi di interesse offerti dalle banche americane agli aspiranti proprietari di casa e alle grandi imprese sono effettivamente diminuiti (anche se hanno ripreso a risalire dal 2013 in poi e ora si sono stabilizzati più o meno ai livelli del 2012).
Fonte: New York Times
E il credito al settore privato, dal 2011 in poi, ha ripreso a crescere, arrivando addirittura a superare i livelli del 2008.
Fonte: Quartz
Da questo punto di vista, anche se non è possibile stabilire un legame causale diretto tra le operazioni di quantitative e l’aumento dei prestiti bancari, la politica della Fed sembrerebbe essere stata un successo (soprattutto se paragonata con la politica monetaria della Bce). Se però confrontiamo l’incremento della base monetaria – il nuovo denaro creato dalla banca centrale, indicato dalla linea blu nel seguente grafico – con l’incremento della massa monetaria – l’ammontare dei soldi in circolazione nell’economia, indicato dalla linea rossa –, vediamo che solo una piccolissima parte della liquidità creata dalla Fed è “sgocciolata” nell’economia reale.
Fonte: EconoMonitor
Questo spiega perché lo scenario iperinflazionistico profetizzato da molti critici del programma della Fed (soprattutto di stampo neoliberista) non si è verificato. Anzi: nonostante l’iniezione di migliaia di miliardi di dollari nell’economia (o meglio, nelle banche), il tasso di inflazione è rimasto quasi sempre al di sotto del target inflazionistico della Fed, che è del 2%.
Fonte: New York Times
Questo, secondo alcuni, è imputabile anche al fatto che a beneficiare del rilassamento delle condizioni di credito da parte delle banche sono state soprattutto famiglie e imprese che già godevano di un ottimo credit rating presso le banche, piuttosto che le famiglie di reddito medio-basso più colpite dalla crisi. Sia per l’avversione di queste ultime a sobbarcarsi nuovi debiti (scarsa domanda) che per la riluttanza delle banche ad effettuare prestiti a categorie a rischio (scarsa offerta). In questo senso, il quantitative easing appare decisamente debole come strumento di sostegno alla domanda aggregata: solo una minima parte della liquidità creata dalla Fed è finita nell’economia reale, e di quella minima parte il grosso è finito nelle tasche di chi ne aveva meno bisogno.
Se l’impatto del quantitative easing sull’economia reale appare dunque molto modesto, e comunque difficilmente quantificabile, diverso è il caso del suo impatto sui mercati finanziari, dove invece gli effetti del quantitative easing sono visibili anche a occhio nudo. Si veda, per esempio, l’andamento dello Standard & Poor’s 500, uno dei principali indici di borsa statunitensi, i cui i cui valori hanno addirittura superato (e di tanto) i livelli pre-crisi, sintomo di una nuova bolla in corso.
Fonte: Quartz
Sul fatto che questo sia una conseguenza diretta del quantitative easing – che aumentando la domanda di asset privati e titoli di stato contribuisce ad aumentarne il valore (e di conseguenza il patrimonio di chi li possiede, che poi sono gli stessi che operano con maggiore dimestichezza sui mercati finanziari) – c’è ormai un consenso unanime. Così come sul fatto che questa sia una delle cause principali dell’aumento dei livelli di disuguaglianza negli Stati Uniti dal 2008 in poi.
Se però gli effetti del quantitative easing si sono fatti sentire soprattutto sui mercati finanziari, come spiegare allora la performance dell’economia Usa dal 2008 da oggi? Dal 2009 in poi il Pil americano a ripreso a crescere stabilmente, e oggi ha superato ampiamente i livelli pre-crisi, in terminali nominali anche se non “potenziali” (un parametro molto discusso che dovrebbe indicare, in teoria, il livello a cui crescerebbe l’economia se vi fosse la piena occupazione e le imprese operassero a pieno regime).
Fonte: New York Times
Anche il tasso di disoccupazione è stabilmente in calo dal 2010 (un dato inequivocabilmente positivo, soprattutto se confrontato con il trend, diametralmente opposto, dell’eurozona), ma non è ancora ritornato ai livelli pre-crisi.
Fonte: Quartz
È innegabile che negli Usa la ripresa, anche se più debole del previsto o di quanto sarebbe potuta essere (come sottolineano molti giornali d’oltreoceano), c’è stata. Dobbiamo quindi concludere che il quantitative easing “ha funzionato”? Ni. Nel senso che l’errore – commesso anche da molti commentatori europei – è imputare il miglioramento dei fondamentali dell’economia statunitense alla politica monetaria della Fed di per sé. Come scrive l’economista statunitense Ed Dolan su EconoMonitor, il fatto che l’economia statunitense, a differenza dell’eurozona, sia uscita dalla recessione con una certa rapidità, ma anche il fatto che la crescita sia stata inferiore alle aspettative, sono entrambi da imputare in primo luogo alle politiche fiscali perseguite dal governo americano in seguito alla crisi, non alle politiche monetarie della Fed (anche le seconde hanno facilitato le prime, tenendo giù i tassi di interesse sui titoli di stato). Scrive Dolan:
Fino alla metà del 2009, le politiche monetarie e quelle fiscali si sono mosse nella stessa direzione, ossia avevano entrambe un carattere espansivo. È un bene che sia stato così, perché altrimenti la recessione sarebbe stata molto più profonda. Ma non appena l’economia ha ripreso a crescere, la politica fiscale ha cambiato verso, diventando via via sempre più restrittiva, e ha continuato a muoversi in quella direzione. Questo ha determinato una sorta di braccio di ferro tra politiche monetarie espansive da un lato e politiche fiscali restrittive dall’altro, finito più o meno in pareggio, nel senso che la politica fiscale, per quanto recessiva, non è stata sufficiente a far naufragare la ripresa, ma il quantitative easing a sua volta non è riuscito a spezzare la camicia di forza della politica fiscale.
Il seguente grafico, che indica l’andamento del bilancio primario degli Stati Uniti tra il 2008 ed oggi, permette di comprendere meglio l’analisi di Dolan (l’area verde indica il periodo di stimolo fiscale, quello rosso il periodo di contrazione fiscale).
Fonte: EconoMonitor
Questa sembra essere, in definitiva, la vera “lezione” dell’esperimento americano con il quantitative easing: l’impatto della politica monetaria sull’economia reale è minimale; quello che conta è l’interazione tra politica monetaria e politica fiscale, e comunque la seconda ha un peso molto maggiore, in termini macroeconomici, della prima. Inutile dunque sperare che nell’eurozona il quantitative easing possa “annullare” gli effetti recessivi delle politiche fiscali perseguite in questi anni (e iscritte nei trattati europei). Senza un cambio di politica sul fronte fiscale, c’è poco o nulla che può fare la politica monetaria (per l’economia reale, almeno).