Il 10 e 11 novembre si è svolto a Pechino il summit dell’Asia-Pacific Economic Council (Apec), un organismo nato nel 1989 e oggi comprendente 21 paesi, nato per favorire la cooperazione economica, il libero scambio e gli investimenti nell’area asiatico-pacifica (nota anche come Pacific Rim). L’incontro è passato in sordina sulla stampa internazionale, ma un domani forse guarderemo indietro a queste due giornate come a uno spartiacque nella storia della regione (e non solo). Come ha scritto Paolo Mastrolilli sulla Stampa:
In teoria, era un incontro tra ventuno paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, finalizzato a definire nuovi accordi per favorire gli scambi commerciali. Nella pratica, però, il vertice Apec che si è appena tenuto a Pechino è stato un delicato esercizio di rapporti di forza, che potrebbe avere implicazioni molto più vaste degli equilibri nella regione. In sostanza un braccio di ferro a tre, fra l’ultima superpotenza rimasta al mondo ma colpita dalla sindrome della decadenza, la nuova potenza emergente, e l’ex superpotenza che si agita per restare rilevante.
Ovviamente stiamo parlando degli Usa, della Cina e della Russia. Come spiega Mastrolilli, “l’Apec viene vista in maniera diametralmente opposta, a seconda della capitale che la osserva”:
Per gli Usa, superpotenza in difficoltà, serve ad affermare la loro leadership in Asia, contenere l’espansionismo della Cina, e bloccare le aspirazioni di rivincita della Russia. Per la Repubblica popolare, invece, è lo strumento con cui affermare la propria supremazia regionale, e oltre, mentre per la Russia è un forum utile a mettere i bastoni tra le ruote dell’America, facendo asse proprio con Pechino.
Obama ha dichiarato che le relazioni globali moderne non sono più un gioco a somma zero: non è più vero che la sicurezza e la prosperità di una grande potenza debbano necessariamente venire a scapito di un’altra. Nel mondo globalizzato, insomma, c’è abbastanza spazio per il successo degli Usa, della Cina e della stessa Russia. Ma a queste parole di rito non sembra credere nessuno, neanche Obama stesso. E lo dimostra “il braccio di ferro a tre” che si è svolto dietro le quinte e ai margini del summit. Giocato tutto sul terreno della promozione di una serie di accordi di libero scambio da cui risulta escluso il rispettivo rivale. A farla da padrone due “mega-accordi” in particolare: da un lato il Trans-Pacific Partnership (Tpp), l’accordo di libero scambio che gli Usa stanno negoziando con 11 paesi dell’Asia Pacifico (ma che esclude la partecipazione di Cina e Russia), e che viene considerato da molti come uno strumento finalizzato ad arginare l’influenza della Cina nella regione, e un’estensione della politica di espansionismo militare che gli Stati Uniti portano vanti da anni in Asia (detta “pivot to Asia”); dall’altro il Free Trade Area of the Asia-Pacific (Ftaap), cioè l’area di libero scambio proposta dalla Cina in contrapposizione al Tpp.
Sul tema, Obama è stato molto chiaro fin da subito: nell’intervento tenuto lunedì dal presidente di fronte ai top manager delle principali compagnie delle 21 economie che compongono l’Apec, Obama ha riaffermato la necessità della leadership globale del suo paese e il suo status di “potenza del Pacifico”, con le ovvie implicazioni riguardo alle ambizioni cinesi. Sempre lo stesso giorno, in un gesto che ha il sapore di una provocazione verso le autorità cinesi, Obama ha presieduto a un vertice presso l’ambasciata americana con i leader degli altri 11 paesi che dovrebbero far parte del Tpp.
Ma stavolta fare la voce grossa è servito a poco. Alla fine l’ha spuntata la Cina, forte anche della sua vicinanza con la Russia, ottenendo l’approvazione dei membri dell’Apec ad avviare una “iniziativa di studio”, della durata di due anni, sull’Ftaap. Si tratta comunque di una soluzione di compromesso: pare che il presidente cinese Xi Jinping fosse intenzionato ad usare il summit per lanciare i negoziati sul trattato in maniera formale, ma sia stato costretto a rinunciare su pressione delle autorità statunitensi. Ma è un pur sempre una vittoria per la Cina, che dimostra la crescente insofferenza della Repubblica popolare nei confronti della politica egemonica degli americani in quello che i cinesi considerano il loro “cortile di casa”. E, forse, la volontà della Cina di cominciare a sfruttare il privilegio che le dà il fatto di avere un enorme credito nei confronti degli Usa (una posizione non dissimile da quella della Germania nei confronti della periferia dell’eurozona). E infatti il presidente statunitense è apparso piuttosto isolato al summit. Forse non vuol dire niente, ma ha fatto molto discutere la foto di gruppo che vede Obama relegato ai margini, in quello che le malelingue hanno definito “il club delle mogli”.
Nel frattempo il braccio di ferro Usa-Cina prosegue sul fronte degli accordi bilaterali. La Cina ha appena concluso un trattato di libero scambio con la Corea del Sud e un altro simile sembra essere in dirittura d’arrivo con l’Australia. Nei giorni scorsi, inoltre, Cina e Russia hanno siglato un secondo importante accordo di fornitura di gas naturale dopo quello sottoscritto a maggio. Ma c’è anche l’accordo tra Cina e Stati Uniti per l’abbattimento delle tariffe sui componenti tecnologici, un primo terreno di prova per l’Ftaap.