Sulla copertina dell’ultimo numero dell’Economist l’economia europea è ritratta come un uccello malaticcio attaccato alla flebo. Sullo sfondo Angela Merkel annuncia: “Tranquilli, sta solo riposando”.
Il riferimento è a una celebre scena di Monty Python in cui un cliente accusa il commesso di un negozio di animali di avergli venduto un pappagallo morto, al che il negoziante cerca di convincerlo che il pennuto “non è morto, sta solo riposando”. Alla fine il cliente, esasperato, sbotta: “No, non sta dormendo. È schiattato. Ha steso le zampe. È spirato. È andato a far conoscenza col creatore. È un ex pappagallo”. La metafora (un po’ iperbolica forse) è chiara: l’uccello steso si riferisce ovviamente allo stato sempre più malandato dell’economia europea, ormai a un passo dalla deflazione e dalla terza recessione in sei anni; la flebo rappresenta le politiche monetarie messe in campo finora della Bce, che pur con tutti i loro limiti sono finora riuscite a tenere in vita l’euro; la frase della Merkel è infine un riferimento ironico all’ostinato – e sempre più solitario – rifiuto della Germania di riconoscere che è arrivato il momento di farla finita con l’austerità, e di ricorrere a politiche monetarie (e fiscali, aggiungiamo noi) più espansive.
Partiamo dalle politiche monetarie. Negli ultimi anni, bisogna riconoscere alla Bce il merito di aver cercato di districarsi tra i numerosi vincoli istituzionali e politici rappresentati rispettivamente dai trattati europei e dai paletti posti dalla Germania. Riscrivendo pian piano le regole del gioco, a partire dall’introduzione del programma Omt (Outright Monetary Transactions), nel 2012, con cui la banca centrale si è dichiarata disponibile a comprare i titoli di stato dell’eurozona in misura “illimitata” (ma in cambio di austerità e conditionalities). Una mossa necessaria per frenare la speculazione contro i paesi della periferia, ma che di fatto rappresenta una violazione della famosa clausola “no bail-out” dei trattati. E che infatti è stata oggetto di una severa bocciatura da parta della corte costituzionale tedesca (ora al vaglio della Corte di giustizia europea). Dal punto di vista della salvaguardia dell’integrità finanziaria e politica dell’eurozona, il piano Omt – pur non essendo mai stato effettivamente implementato – è stato indubbiamente un successo, garantendo la sopravvivenza dell’unione monetaria. Ma non è riuscito ad evitare che l’eurozona scivolasse lentamente verso la stagnazione e la deflazione (o stag-deflazione per dirla in una parola), come avevano previsto in molti. A causa non solo delle politiche monetarie “monche” della Bce – a partire dal rifiuto o dall’impossibilità (a seconda dei punti di vista) della banca centrale di attivare un programma di quantitative easing “normale”, sul modello di quello della Federal Reserve – ma anche e soprattutto a causa delle politiche di austerità fiscale e salariale perseguite con pervicacia dall’establishment europeo (col sostegno attivo della Bce, bisogna dire). Un fatto che ormai viene riconosciuto anche da soggetti non certo tacciabili di partigianeria, come appunto l’Economist o anche l’istituto Bruegel.
Anche Draghi, di fronte all’evidenza dei numeri (deflazione alle porte, disoccupazione alle stelle e debiti pubblici in continua crescita) e alla crescente pressione da parte anche di numerosi organismi internazionali, a partire dal Fondo monetario internazionale, perché faccia di più per adempiere al mandato inflazionistico della Bce del 2%, di recente si è visto costretto a riconoscere la necessità di un cambio di rotta, almeno in fatto di politica monetaria, se non di politica fiscale. E infatti negli ultimi mesi ha introdotto una serie di nuove misure “non convenzionali” finalizzate a far ripartire il credito alle famiglie e alle imprese: tra queste, l’introduzione di un tasso di interesse negativo sui depositi e un nuovo piano di rifinanziamento a lungo termine per le banche, detto Tltro. Entrambe queste misure hanno però fallito nel loro intento. È probabilmente per questo che Draghi ha finalmente infranto anche l’ultimo tabù, quello del quantitative easing (QE), annunciando la disponibilità della banca centrale a procedere all’acquisto di titoli privati (asset-backed securities o Abs). Si tratta di una forma di QE ben diversa da quella messa in campo dalle altre banche centrali in questi anni, in cui l’acquisto di titoli ha riguardato soprattutto titoli governativi (un’eventualità che Draghi comunque non ha escluso). Ma che ha il merito di aprire finalmente il dibattito, seppur con enorme ritardo, sulle politiche di quantitative easing per l’eurozona.
Per quanto riguarda il piano di quantitative easing “light” della Bce, è ragionevole ritenere che non sarà sufficiente a rilanciare l’economia dell’eurozona. Il motivo è lo stesso per cui sono fallite le altre misure messe finora in campo dalla Bce: l’obiettivo del piano è iniettare liquidità nelle banche, nella speranza che questo faccia ripartire il credito, ma in un contesto deflazionistico come quello in cui versa l’eurozona, in cui il problema principale è la stagnazione della domanda, le politiche monetarie non sono sufficienti a far ripartire la domanda (e dunque il credito). In questi casi, come insegnava Keynes, è necessario ricorrere a politiche fiscali espansive (come ha recentemente riconosciuto anche l’Fmi).
Vuol dire allora che ha ragione Draghi quando dice che la Bce, con quest’ultima manovra, ha “esaurito le cartucce” e che ora tocca ai governi fare le necessarie “riforme strutturali” per rilanciare la crescita. Per nostra fortuna, no. E questo perché 1) a prescindere da quello che si pensi sul percorso di riforme indicato dall’Europa, su una cosa concordano molti commentatori (da Münchau a Paul De Grauwe), ossia che non saranno di certe le riforme strutturali a rimettere in moto l’economia; e 2) c’è ancora molto che può fare la Bce per agevolare una politica di stimolo fiscale. Tanto per cominciare, come ormai chiedono in molti, la Bce potrebbe avviare un programma di quantitative easing “normale” – ossia non condizionato all’adesione del parte del paese ricevente a un programma di austerità fiscale, come prevede invece l’Omt – acquistando i titoli di stato degli stati membri. Questo sarebbe senz’altro un passo avanti per l’eurozona. Ma solleva numerosi problemi. A partire dalla distribuzione del piano: in sostanza, chi ne beneficerebbe? In che misura? Sulla base di quali parametri? Ma il problema vero è un altro: sarà un quantitative easing inteso unicamente come strumento di politica monetaria, ossia finalizzato all’ennesima iniezione di liquidità nelle banche (e dunque destinato prevedibilmente ad avere effetti economici insufficienti, per i motivi sopracitati) o sarà piuttosto inteso come uno strumento monetario-fiscale, ossia inteso a facilitare una politica di stimolo fiscale negli stati membri?
La seconda ipotesi è ovviamente la più auspicabile. Ma questo richiederebbe una revisione dei vincoli di bilancio (Patto di stabilità e Fiscal Compact) e/o l’esclusione degli investimenti infrastrutturali dai calcoli di bilancio, cosa che al momento non sembra probabile (vedi il recente scontro tra Bruxelles e Roma per la deviazione dell’Italia di qualche decimo di punto percentuale dagli obiettivi di riduzione del deficit previsti dal Fiscal Compact). Inoltre è innegabile che un ulteriore aumento del debito rappresenterebbe effettivamente un problema per quegli stati, come l’Italia, che già presentano un rapporto debito-Pil ai limiti della sostenibilità (vedi qui). Da un punto di vista tecnico, quest’ultimo problema potrebbe essere aggirato se la Bce ricorresse a una politica di overt money financing – più comunemente nota come monetizzazione –, acquistando direttamente i nuovi titoli emessi dagli stati e impegnandosi a tenerli sul proprio bilancio a tempo indefinito (per maggiori informazioni vedi qui). Da un punto di vista economico questa rappresenterebbe la soluzione più ottimale, poiché comporterebbe un aumento del deficit, e dunque della domanda, senza far aumentare il debito pubblico (se quei titoli non vanno ripagati possono effettivamente considerarsi non-debito). E infatti è stata recentemente avallata persino dall’Economist. Ma è una soluzione che presenta ostacoli istituzionali e politici molto forti.
Allo stesso modo, la Bce potrebbe monetizzare – ossia acquistare direttamente (idealmente in maniera permanente) – una porzione del debito pubblico degli stati membri, riducendo così le spese per interesse dei governi e liberando risorse da investire in uno stimolo fiscale. Ma anche questa soluzione presenterebbe gli stessi problemi di distribuzione sopracitati, e infatti esistono sul tavolo una miriade di proposte anche molto diverse tra loro (per una panoramica delle suddette vedi qui). E comunque in assenza di una revisione dei vincoli di bilancio rischierebbe di avere un effetto fiscale insufficiente.
Una maniera per “superare a destra” molti dei problemi posti fin qui sarebbe quella di delegare lo stimolo fiscale direttamente alle autorità “federali” dell’Ue. Ormai sembra esserci un ampio consenso su questo punto: il lancio di un piano di investimenti europeo da 300 miliardi di euro era uno dei punti principali del programma elettorale di Juncker. Ma il diavolo, come sempre, è nel dettaglio. A partire dall’entità della somma, ritenuta da molti troppo esigua. Non è chiaro poi dove la Commissione intenda trovare i soldi. Sia Juncker che Katainen hanno infatti fatto intendere che il grosso della somma dovrà provenire da fonti private (senza specificare quali o come), e che il resto verrà dai contributi dei singoli stati. Questo rischia di incappare nella resistenza di paesi come la Germania che si oppongono a qualunque forma di mutualizzazione del debito. Ma si tratta di un falso problema. Come viene giustamente fatto notare in un recente articolo dell’istituto Bruegel, il piano di investimenti potrebbe tranquillamente essere finanziato per mezzo della Banca europea per gli investimenti (Bei), i cui titoli potrebbero essere acquistati direttamente dalla Bce, aggirando così il problema della mutualizzazione. “Un piano finanziato dalla Bei non avrebbe nessuna implicazione in termini di regole fiscali europee poiché tali fondi non andrebbero ad aumentare né il debito né il deficit degli stati membri”, si legge nell’articolo.
Quest’ultima soluzione rappresenta probabilmente la sintesi migliori tra i bisogni di alcuni paesi (soprattutto quelli della periferia), i timori di altri (come la Germania) e i vincoli istituzionali attualmente esistenti. Ma ovviamente i punti da definire sono molti. È per questo che prima cominciamo a discuterne meglio è. Per tutti. Ma soprattutto per quei paesi che più degli altri hanno sofferto per le politiche perseguite in questi anni, a partire dall’Italia.