Quando si parla di istituzioni europee si ha la tendenza a farne tutto un mucchio, una generica e indistinta burocrazia sparsa nei molteplici palazzi brussellesi. Invece ogni istituzione ha il suo carattere che gli viene non solo dalle sue funzioni ma anche dalla sua storia, dai grandi personaggi che l’hanno guidata e inevitabilmente anche ispirata. Commissione, Consiglio e Parlamento, una e trina, sono come la Santissima Trinità, i tre moschettieri, le tre moire, i tre porcellini, il buono, il brutto, il cattivo: stanno sempre insieme. Ma sono ben distinti.
Se si potesse associare le istituzioni europee a tre grandi romanzi, il Parlamento potrebbe essere “Festa mobile” di Hemingway, con la sua atmosfera di sofisticato esercizio intellettuale e smisurato snobismo. Un grande happening, un’incessante performance dove tutti hanno un’aria di intelligentsia illuminata e ti guardano come a dirti “evapora, tu non puoi capire, non è roba per te”. Qui tutto è avanguardia, spregiudicatezza e glamour. La gente va in giro coi capelli verdi, con cornamuse norrene al collo, con cartelli di protesta, con babbucce cipriote o solo con spacchi da capogiro. Nei corridoi, negli atri, nelle sale c’è sempre una mostra che si allestisce o si smonta, un set televisivo che si accende, frotte di giornalisti che corrono da qualche parte carichi di cineprese, un coro di boscaioli slovacchi che intona un inno propiziatorio alla madre terra e una contadinella in costume tipico che distribuisce frittelle, un sit-in di vegani lapponi venuti da Rovaniemi a dorso di renna o torme di scolari in gita che si baciano dietro i pannelli di una conferenza sui delfini. Il Parlamento non si spegne mai e la sera semplicemente si sposta sulla Place du Luxembourg, dove il dibattito continua nei caffè e nei ristoranti, fino all’ultima mozione, all’estrema raccolta di firme che si consuma nella sauna di qualche grande albergo, quando il trucco è sfatto, lo spacco e strappato, il lappone ha azzannato una salsiccia e il boscaiolo la contadinella.
La Commissione fa invece pensare a “Frankenstein” di Mary Shelley, perché qui non si è mai smarrita l’ispirazione primordiale dell’istituzione, quella che doveva portare a costruire un uomo nuovo, migliore perché solo europeo. Nei corridoi del Berlaymont si respira aria di laboratorio e se non si vedono i camici bianchi è perché per non dare nell’occhio tutti li lasciano appesi dietro la porta. Ma in ogni ufficio si lavora con visionario entusiasmo alla costruzione di un novello Adamo, multiculturale, multilingue, multiforme figlio prepotente di quello michelangiolesco, che invece di tendere mitemente il dito a Dio gli molla un ceffone. E allora a Dio non resta altro che andare in Corte di giustizia e lì chissà come va a finire. Perché la Commissione non è mica come Victor Frankenstein, lo sprovveduto protagonista del romanzo di Mary Shelley che credeva di far resuscitare i morti. No, la Commissione ha capito che l’uomo nuovo non si farà con la chimica e l’elettricità, ma per legge, a colpi di sentenze e ricorsi. Allora anche Dio finirà in infrazione e gli toccherà di arrendersi: l’uomo europeo sarà infinitamente meglio del suo. Rimestare un libro bianco con uno verde finché non dà una schiuma celadon, lì stemperare a freddo una direttiva, centrifugare a parte un regolamento e versarlo a goccia, aggiungere una dose di preambolo, lasciare decantare i considerando, applicare, trasporre e aspettare dieci anni. Se non succede niente, vuol dire che è ora di cambiare Commissione.
Il Consiglio è il più cupo della trilogia comunitaria e con il suo marmoreo grigiore fa pensare all’istituto Benjamenta di Robert Walser nel suo romanzo “Jakob Von Gunten”. Qui non c’è più chiaro fine, ma poco importa, tutto viene comunque fatto con assoluto rigore. A cominciare dai controlli di sicurezza, che sembrano ormai la vera missione dell’istituzione, rimasta contaminata dalle sue troppo intense frequentazioni militari. Qui ogni tornello sembra HAL900 di “2001 Odissea nello spazio”. Manda squilli e lampi, frulla dati, strizza spie luminose e potrebbe anche parlare. Si limita a radiografarci uno per uno. Il giorno del black-out generale, riconoscerà i suoi. Le file di porte bianche nei corridoi tondeggianti del Lex hanno tutta la severità della caserma che piega con sofisticate punizioni gli animi più turbolenti. Minacciosi cartelli mettono in guardia contro le spie che potrebbero celarsi ovunque, dai pannelli del controsoffitto, alle ante degli armadi grigio finanza. Ma l’autorità invisibile che governa il bunker dove “si puote ciò che si vuole” non riesce a tenere tutto in pugno. Così potrebbe essere una sfilata di Martedì grasso quella che dal fondo del corridoio vi viene incontro senza ridere con vestiti colorati pieni di bottoni luccicanti e cappelli piumati. E’ invece una frotta di capi di stato maggiore che torna in riunione dopo il ristorante, anzi il refettorio. Nella sala dalle folte moquette ci sono più interpreti che delegati. I microfoni sono così bassi, i vetri sono così spessi che sembra che nessuno parli e che si stia rinchiusi lì dentro in silenzio per una punizione dell’ottuso preside dell’istituto Benjamenta. Intanto trapela dalle fessure un odore di caffè bruciato che subito si mescola ad un’improvvisa folata di zuppa di cipolla. Anche questo è un accorgimento dei segreti gestori del palazzo che vogliono far perdere a chi vi entra la nozione del tempo. L’usciere di guardia con la lampadina accesa sul tavolo sta lì a ricordare che alle 18,30 comunque si spegne tutto, anche i tornelli. Chi è fuori è fuori, chi è dentro è dentro.