C’è un legame tra politica monetaria e disuguaglianza? Secondo Janet Yellen, governatrice della Federal Reserve, sì. Intervenendo a una conferenza sul tema della disuguaglianza tenutosi di recente a Boston, la Yellen ha smontato l’idea che la politica monetaria sia in qualche maniera “neutra”, sostenendo anzi che essa ha sempre effetti distributivi, che possono essere positivi o negativi, aumentando o diminuendo le disuguaglianze. Questo avviene fondamentalmente attraverso tre canali, ha spiegato.
In primo luogo, attraverso la modifica del tasso di interesse e le politiche di quantitative easing, con cui la banca centrale può ridurre il costo del denaro nella speranza di stimolare l’attività economica e di aumentare il tasso di occupazione. La stessa governatrice riconosce i limiti di una tale politica: la banca centrale può aumentare la liquidità delle banche ma non può indurle a prestare alle famiglie e alle imprese, o creare la domanda necessaria perché tale politica abbia effetto. Questo è particolarmente vero in tempi di crisi economica, quando limitarsi unicamente alla politica monetaria per stimolare l’economia equivale a “spingere una corda”, come diceva Keynes. In questi casi, è necessario combinare la politica monetaria con quella fiscale. Ad ogni modo, la Yellen nota che il programma di acquisto titoli della Fed ha “creato più di due milioni di posti di lavori”, il che dimostra che queste politiche, pur con tutti i loro limiti, hanno un impatto positivo in termini occupazionali. Molto meno diretto è invece l’impatto in termini salariali. In teoria, una riduzione della disoccupazione, aumentando il potere contrattuale dei lavoratori, dovrebbe comportare un aumento dei salari. Ma negli Usa, a fronte di una significativa riduzione della disoccupazione dal 2008 ad oggi, i salari reali sono rimasti praticamente immutati. Come spiega Jared Bernstein, ex consulente economico del vicepresidente americano Biden, nel Washington Post, questo è imputabile al fatto che “il potere contrattuale dei lavoratori americani è oggi così basso che solo la piena occupazione li metterebbe nella condizione di strappare un aumento salariale ai datori di lavoro”.
Il tema dei salari è molto caro alla governatrice della Fed, che pian piano sta compiendo una piccola rivoluzione, smontando uno per uno alcuni dei capisaldi della dottrina monetarista che da quasi quarant’anni domina il pensiero economico (e non solo negli Stati Uniti), a partire dall’idea secondo cui un rapido incremento dei salari produca inflazione. Tutte sciocchezze, sostiene la Yellen: a fronte di una stagnazione dei salari che negli Usa va avanti da trent’anni (in cui i salari reali sono cresciuti molto meno rapidamente del tasso di produttività), che ha visto una fetta significativa del reddito nazionale passare dal lavoro ai profitti, c’è un ampio margine per aumentare i salari senza che questo provochi alcun rischio inflazionistico. “Mi auguro che i salari reali riprendano presto a crescere, arrivando al punto in cui i salari nominali crescono più rapidamente dell’inflazione, aumentando così il potere d’acquisto delle famiglie”, ha dichiarato. (Impossibile non notare l’abisso che separa il pensiero della Yellen da quello del nostro Mario Draghi, che invece continua a cantare le lodi della moderazione salariale e della flessibilità, ma questo è un altro discorso).
L’altro canale attraverso il quale le banche centrali possono influire sui livelli di disuguaglianza è quello della cosiddetta “supervisione macroprudenziale”, che riguarda la regolamentazione dei mercati finanziari. Rinunciando in buona parte a esercitare questo ruolo in nome di una presunta capacità dei mercati di “autoregolamentarsi” – sostiene la Yellen – le banche centrali hanno direttamente contributo a processi boom-bust (come quello del 2008) che hanno effetti distributivi molto negativi: se durante il boom sono soprattutto le fasce alte ad arricchirsi, lo scoppio di queste bolle colpisce in particolar modo le fasce più deboli della società. Le crisi economico-finanziarie rappresentano dunque dei momenti di trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse a quelle alte, che le banche centrali possono prevenire per mezzo di una maggiore regolamentazione dei mercati.
In terzo e ultimo luogo, secondo la governatrice della Fed, le banche centrali possono mitigare le disuguaglianze finanziando direttamente programmi come quello del Working Cities Challenge negli Usa, in cui la Fed fa incontrare esperti, ricercatori e rappresentanti di comunità disagiate con l’obiettivo di raccogliere capitale umano e finanziario da investire nelle famiglie a basso reddito.
Ovviamente ci sono molti altri modi in cui le banche centrali possono influire direttamente sui livelli di disuguaglianza e sulla distribuzione del reddito (per esempio attraverso una politica di monetizzazione del deficit/debito degli stati). Ma il semplice fatto che la Federal Reserve si ponga il problema di quello che può fare per mitigare l’ingiustizia sociale rappresenta comunque un segnale molto positivo. Che speriamo sia colto anche al di qua dell’Atlantico.