L’Italia dovrà versare 16.533.000 euro di multa sul sul conto “Risorse proprie dell’Unione europea” per aver emesso aiuti di stato e sgravi fiscali alle aziende che assumevano giovani dai 25 ai 32 anni “contrari alla normativa comunitaria sul mercato comune”. Lo ha stabilito oggi il Tribunale dell’Unione europea, che ha respinto il ricorso dell’Italia contro un’ammenda che giudicava eccessiva, mettendo la parola fine a un botta e risposta ormai decennale fra Roma e Bruxelles in merito all’ammontare dell’ammenda da pagare.
Tutto è iniziato nei primi anni ’90, quando il Parlamento italiano legifera sul “Contratto di formazione e lavoro (CFL)”. Si trattava di contratti a tempo determinato, comportanti un periodo di formazione, per l’assunzione di disoccupati di età non superiore a 29 anni, poi alzata a 32. Il datore di lavoro che assumeva con questo tipo di contratto beneficiava per un periodo di due anni di un’esenzione dagli oneri sociali. Tale riduzione si applicava in maniera generalizzata su tutto il territorio nazionale, mentre alcune riduzioni di oneri più marcate erano previste per gli imprenditori del Mezzogiorno. Per molte aziende, alla scadenza, era consentito trasformare i CFL di due anni in contratti a tempo indeterminato.
Tutto ciò, tuttavia, secondo la Commissione europea è contro le regole del mercato comune perché , ad esempio la trasformazione del CFL riguarda chi un lavoro ce l’ha già invece di chi è completamente escluso dal mercato. Così come spostare a 32 anni il limite di età del personale assumibile con quel tipo di contratto “è troppo” perché, secondo Bruxelles, la riforma non è più a target giovanile.
Insomma per la Commissione aiutare i giovani va bene, ma solo chi un lavoro non ce l’ha e non ha più di 29 anni. L’Italia si trova cosi costretta a recuperare gli aiuti di Stato elargiti in modo “illegittimo”, cosa che non riesce a fare tempestivamente ed in modo completo cosicché la Corte di Giustizia, nel 2004 e nel 2011, la condanna al pagamento di 30 milioni a semestre per la percentuale di “aiuti illegali” il cui recupero non è stato ancora effettuato. La Commissione europea, nel 2013, tenendo presente quanto fatto dall’Italia, calcolatrice alla mano stabilisce che l’importo rimasto da versare è precisamente 16.553.000.
L’Italia non ci sta e ricorre alla giustizia europea chiedendo per un abbassamento della cifra soprattutto considerando che molti degli aiuti riguardavano imprese ora insolventi o sottoposte a procedura fallimentare. Il Tribunale chiarisce però che il fatto che un beneficiario sia insolvente o soggetto a una procedura fallimentare non libera lo Stato membro dall’obbligo, perché un Paese, si legge nella sentenza ,“può legittimamente liberarsi dall’obbligo di recuperare gli aiuti che ha erogato in violazione del diritto dell’Unione solo provando l’impossibilità assoluta di dare correttamente esecuzione alla decisione che gli ingiunge il recupero”, ma l’Italia non è fra questi.