di Giorgio Garbasso
Le agende politiche dei commissari europei spaziano tra impegni fondamentali per il futuro dell’Europa e altri un po’ meno. Prendiamo il commissario per il commercio: non ha mai avuto veramente un ruolo di serie A. Almeno fino a oggi. Il nuovo commissario, che ha superato con successo lunedì 29 settembre l’audizione davanti alla commissione Commercio Internazionale (INTA), è la popolare-liberale svedese Cecilia Malmström, ex commissario per gli affari interni e l’immigrazione.
La designazione del nuovo team di commissari europei a sostegno del programma del lussemburghese Juncker arriva in un momento topico. Il nuovo commissario ha oggi in mano uno dei dossier più scottanti dell’agenda politica europea: il TTIP, il trattato commerciale transatlantico in via di negoziazione con gli Stati Uniti. Un accordo che non riguarda solo le barriere tariffarie ma anche la convergenza normativa sulla sicurezza, l’ambiente e la salute. Rispetto alla precedente commissione, c’è forse un cambiamento di rotta che riguarda un capitolo abbastanza oscuro di queste negoziazioni. A luglio, non appena nominato, il presidente Juncker ha annunciato l’abolizione dell’Investor-State-Dispute Settlement (ISDS), vale a dire il meccanismo di risoluzione delle controversie tra investitore e stato. In tale direzione si è mossa la neo-commissaria durante la sua audizione. È cosa alquanto rara che un dispositivo piuttosto oscuro del commercio internazionale s’innalzi al livello più alto dei dibattiti di politica internazionale. Cosa si nasconde dietro questo barbaro acronimo? Come ha potuto catalizzare le attenzioni in così poco tempo?
Per spiegarlo nella maniera più semplice possibile, l’ISDS è uno strumento presente in un gran numero di trattati di libero scambio e d’investimento. Istituisce un tribunale commerciale ad hoc per proteggere gli investimenti internazionali delle imprese straniere da ingiuste espropriazioni o da un trattamento discriminatorio del paese di accoglienza. Ad esempio, nel 2013 il gruppo Al-Kharafi fece causa allo stato libico per avere illegalmente annullato il progetto di costruzione di un complesso turistico con un leasing di novanta anni. Questa è la particolarità dell’ISDS: se prima solo uno stato poteva far causa a un altro stato, ora anche le imprese hanno questo diritto. Le garanzie sono ovviamente il nettare di ogni investimento e nessuna compagnia vorrebbe puntare a espandersi in un mercato in cui rischia di subire un trattamento ingiusto, e dove dovrebbe sottostare alla giustizia dello stesso paese che l’ha espropriato dal suo investimento. Da qui l’idea di aggirare i tribunali nazionali e fare ricorso a un tribunale esterno, creato appositamente per tale funzione.
Gli Stati Uniti sono i sostenitori più accaniti di questo strumento. La precedente commissione Barroso l’ha difeso con veemenza. Sono stati firmati in tutto 3,400 accordi con clausole ISDS. L’Ue, da sola, ne ha stipulati 1,400. Inutile dire che ci troviamo di fronte a un marasma di testi giuridici con grandi differenze tra un modello e l’altro. Questo è uno dei motivi per cui gli Stati Uniti e l’Unione europea vorrebbero includere nel trattato transatlantico un meccanismo di risoluzione delle controversie investitore-stato: ridefinire i termini e strutturare un linguaggio comune da mettere a disposizione degli altri paesi. Il modello Ue-USA creerebbe un precedente per ogni futura negoziazione con altri stati, primo tra i quali la Cina.
Ma il successo di questo strumento di diritto pubblico internazionale è da interpretare con attenzione. Da una parte certifica la sua efficacia nel proteggere gli investimenti, dall’altra dovrebbe invece destare più di un sospetto. Basti pensare che se dagli anni settanta agli anni duemila ci sono stati solamente 50 casi di arbitraggio tra compagnie e stati, in ciascuno degli ultimi tre anni ne sono stati registrati 50. Inutile dire che la situazione è sfuggita completamente di mano. Se in precedenza l’ISDS era uno strumento legale per proteggere i propri investimenti da ingiuste espropriazioni, ormai è diventato qualcosa di ben più pericoloso. Un esempio clamoroso è quello della Philip Morris, che nel 2011 fece causa allo stato australiano, “colpevole” di aver lanciato una delle più innovative politiche contro il fumo. La nuova legge obbligava i produttori di sigarette a vendere esclusivamente confezioni generiche, ossia pacchetti di sigarette standardizzati senza il loro branding: niente marchio di produzione, logo né colori, solo una piccola scritta col nome della marca in un tetro colore marroncino in fondo al pacchetto, sotto alle spaventose foto di tumori alle quali siamo ormai abituati. Philip Morris Asia intentò una causa contro lo stato dell’Australia sostenendo che i requisiti imposti alle confezioni generiche costituivano un’espropriazione dei loro diritti di proprietà intellettuale. Ma non è tutto. Dato che all’epoca non c’era nessun accordo d’investimento tra gli Stati Uniti e l’Australia, gli investitori americani acquisirono il 100% delle quote di Philip Morris Asia tramite la propria società controllata a Hong Kong, per poter sfruttare la protezione legale nell’accordo d’investimento invece già esistente tra Australia e Hong Kong. L’acquisizione fu portata a termine dieci mesi dopo l’annuncio da parte del governo australiano di introdurre le confezioni generiche di sigarette.
Come si vede, avvocati di compagnie multimilionarie, aggrappandosi a cavilli legali, riescono a far causa a uno stato, influenzando in modo diretto o indiretto le politiche pubbliche di un altro paese, anche e soprattutto quelle pensate per proteggere l’ambiente, la salute o la sicurezza dei cittadini. Un altro esempio importante, che concerne l’equilibro delle posizioni europee, e ancor più perché riguarda una voce forte dell’Unione, è il contenzioso tra la compagnia di energia svedese Vattenfall e la Germania. La Vattenfall fece causa allo stato tedesco per la decisione di uscire dal nucleare in seguito al disastro di Fukushima chiedendo ingenti somme di denaro. Fu proprio la Germania a firmare nel 1950, con il Pakistan, il primo accordo bilaterale con una clausola di risoluzione delle controversie investitore-stato. Dopo il contenzioso con la Vattenfall, però, la Germania ha giurato guerra contro questo strumento. La quasi totalità degli ISDS è stata negoziata tra paesi ricchi e paesi in via di sviluppo che avevano spesso un sistema giudiziario inopportuno e parziale. Non si capisce quindi quale sia la necessità di creare un tribunale esterno dato che sia l’Ue che gli Stati Uniti hanno sistemi giudiziari affidabili.
Un aspetto rilevante è quello che riguarda le somme risarcitorie. Nel 2013 il gruppo Al-Kharafi ottenne dalla Libia un risarcimento di 935 milioni di dollari per l’espropriazione del proprio investimento iniziale che era di soli 5 milioni. Anche se molti sostenitori dell’ISDS assicurano che due terzi delle dispute sono vinte dagli stati, questi pochi esempi indicano che non c’è da stare sereni. L’idea di concedere il diritto a un’impresa di fare causa a uno stato diventa un’altra arma in mano alle multinazionali contro la sovranità degli stati. La phronesis della nuova Commissione nell’annunciare il ritiro del meccanismo ISDS non ha dunque nulla di misterioso. Lo scetticismo della Germania, il dissenso di pressoché tutta la società civile, che accusa le élite europee di non volere un’Europa sociale ma solo un’Europa dei mercati hanno convinto il commissario Malmström che l’abolizione del ISDS sia la migliore profilassi per evitare di far saltare l’accordo commerciale transatlantico.
Al tempo stesso la posizione della Malmström non è priva di ambiguità. Durante la sua audizione ha ammesso che l’ISDS potrebbe essere rimosso dal TTIP ma che non sarà oggetto di discussione nelle negoziazioni che già si trovano in uno stadio avanzato, come l’accordo commerciale tra l’Unione europea e il Canada, il CETA. Inoltre, piccolo incidente: il nuovo commissario ha annunciato su Twitter il ritiro dell’ISDS, ma qualche minuto dopo il tweet era scomparso. Ci si augura che le sue buone intenzioni mettano a tacere ogni dubbio. L’ISDS sarà un tavolo di prova importante sul quale si giocherà il braccio di ferro tra Unione europea e Stati Uniti.