È in atto un processo di rimozione collettiva. Mentre il dibattito pubblico è tutto incentrato sui deficit degli stati e sulle riforme del mercato del lavoro – dipinti come i principali problemi che affliggono l’economia europea e per riflesso come i maggiori ostacoli alla ripresa –, di finanza si parla poco o niente. Come se i problemi che hanno determinato la crisi finanziaria del 2008 – e che hanno messo in moto una crisi economica e sociale di cui, perlomeno nell’eurozona, non si vede la fine – fossero stati tutti risolti. Purtroppo così non è. Come ha fatto notare di recente Andrea Baranes sul blog di Banca Etica, il valore dei principali indici di borsa è oggi molto vicino – se non addirittura significativamente superiore – a quello del picco pre-crisi. Il caso più clamoroso è quello degli Stati Uniti, dove, come si può notare nei seguenti grafici, i tre indici principali – il Dow Jones, il Nasdaq e lo Standard & Poor’s 500 – hanno tutti largamente superato i valori del 2007 (che al tempo rappresentavano già dei massimi storici, se si fa eccezione per il Nasdaq, che raggiunse il suo picco massimo nei primi mesi del 2000, nel pieno della bolla della “new economy”).
All’indomani dello scoppio della crisi dei subprime fu chiaro a tutti che il meltdown globale che ne seguì era il risultato di un’enorme bolla speculativa (imperniata sul mercato immobiliare) alimentata dai mercati finanziari e destinata inevitabilmente a scoppiare, come tutte le bolle. Per “bolla speculativa” si intende una situazione in cui il prezzo di un bene si distacca sempre di più dalle fondamentali economiche che sottostanno al movimento di un prezzo. In parole povere, se i mercati finanziari crescono molto più rapidamente dell’economia reale, si può stare abbastanza certi di essere in presenza di una bolla. Come dovremmo giudicare allora gli attuali valori di borsa americani? Un indizio ce lo può fornire l’andamento del Pil statunitense, che dal 2007 a oggi è cresciuto di circa il 16%, mentre i due principali indici di borsa USA sono cresciuti rispettivamente del 20% e del 33%. Come scrive Baranes:
Attenzione, non stiamo “solamente” dicendo che i mercati finanziari crescono più velocemente dell’economia reale; stiamo dicendo che la crescita è maggiore partendo dal picco massimo raggiunto dai mercati finanziari alla vigilia dello scoppio della peggiore crisi della storia recente, ovvero che la finanza è cresciuta più veloce dell’economia anche partendo dal valore massimo raggiunto durante la precedente bolla speculativa. Se al contrario prendiamo il punto più basso raggiunto dall’indice S&P500 nel febbraio del 2009, la crescita è stata di qualcosa come il 170%, in poco più di cinque anni (sempre a fronte di una crescita del Pil di circa il 16%).
A guardare i dati, insomma, sembrerebbe esserci pochi dubbi: siamo in presenza di una bolla speculativa ancor più grande di quella del 2007.
Questo per quanto riguarda gli Stati Uniti. Il caso dell’eurozona, pero, è forse ancora più interessante: se guardiamo all’indice STOXX 50, che comprende le cinquanta maggiori imprese finanziarie e non operanti nell’eurozona (ovviamente sono incluse tutte le principali banche del continente), vediamo che i valori di borsa – seppur lontani dai valore pre-crisi – sono stabilmente in aumento dalla metà del 2012 (registrando una crescita quasi del 50% in due anni).
Questo nello stesso periodo in cui il Pil dell’eurozona si è contratto quasi del 3% (vedi il grafico qui sotto), in cui l’area euro ha continuato a registrare tassi di disoccupazione ai massimi storici e in cui migliaia di piccole e medie imprese sono state costrette a chiudere i battenti, soprattutto nei paesi della periferia.
Anche in questo caso, come negli Stati Uniti, vediamo uno scollamento piuttosto evidente tra indici di borsa – e sistema finanziario in particolare – ed economia reale, sintomo di una nuova bolla in corso. Ancor più sorprendente è la situazione che si registra nel mercato dei derivati, che come è noto sono stati una delle cause principali del crash del 2008. Secondo gli ultimi dati ufficiali (anche se in realtà è impossibile stimare l’entità esatta dei derivati in circolazione), questi ammonterebbe all’incirca a 710 trilioni di dollari – all’incirca 50 trilioni di dollari in più rispetto al picco pre-crisi e quasi dieci volte il valore del Pil mondiale.
Secondo Martin Wolf, capo economista del Financial Times, questo ha determinato una situazione in cui “un’altra crisi finanziaria – molto peggiore di quella del 2008 – è pressoché inevitabile”. Come spiega Wolf nel suo ultimo libro, The Shifts and the Shocks: What We’ve Learned – and Still Have to Learn – From the Financial Crisis, la colpa è da imputare in parte al fatto che non è stato fatto quasi nulla per riformare il sistema finanziario in seguito alla crisi del 2008, e in parte all’enorme liquidità immessa dalle banche centrali e dai governi – tanto in Europa quanto negli Stati Uniti – proprio per salvare le banche e il sistema finanziario dopo la crisi del 2007-8, che non ha beneficiato quasi per nulla l’economia reale mentre ha spinto al rialzo il valore di azioni e obbligazioni oltre qualsivoglia fondamentale e logica economica (per ragioni che abbiamo spiegato più volte su questo giornale).
In questo senso appare particolarmente preoccupante la nomina da parte di Juncker di Jonathan Hill, un ex lobbista bancario britannico considerato da molti un uomo della City, come responsabile dei servizi finanziari dell’Ue. Il Parlamento europeo ha già dichiarato che darà battaglia sulla nomina di Hill. La buona notizia è che la Commissione europea ha fatto sapere che chiunque otterrà il posto non avrà il potere di modificare le varie leggi introdotte nell’Ue negli ultimi anni per limitare i bonus dei banchieri (tra le poche riforme finanziarie introdotte a livello comunitario in seguito alla crisi), fortemente osteggiate dalla comunità finanziaria d’oltremanica. Ma è evidente che non basterà di certo questo a evitare un’altra crisi.