di Adamo
Dalla conferenza internazionale di Parigi sull’Iraq sono trascorsi pochi giorni e già si fatica a ricordare il risultato più tangibile prodotto da quel consesso, ad eccezione, forse, dei raid dell’aviazione francese condotti a brevissima distanza in territorio iracheno, singolare ironia del destino per il paese che appena un decennio addietro aveva innalzato il vessillo dell’opposizione all’azione militare anglo-americana. A ben vedere, il lascito forse più memorabile della conferenza è la foto di gruppo – “photo-op” nel gergo sincopato degli appuntamenti internazionali – in cui il ministro degli Esteri italiano (e futuro Alto rappresentante per la politica estera europea) Mogherini spicca come unica presenza femminile del gruppo. La circostanza non è passata inosservata: dalla stampa italiana, la cui prontezza nel rilevare dettagli di questo tipo è degna di miglior causa, allo stesso ministro Mogherini. “Long way to go, for women in foreign policy”, ha commentato amaramente (e di persona, è da credere) su Twitter.
Difficile non solidarizzare con lei. E comprenderne il disappunto, legato anche ad un senso di umanissima solitudine, non tanto in senso fisico ma come espressione di quell’impossibilità di stabilire quelle relazioni informali di familiarità inevitabilmente facilitate dalla comunanza di genere. Un’icona del giornalismo statunitense come Katharine Graham, proprietaria/editrice del Washington Post ai tempi gloriosi del Watergate, ha raccontato con efficacia nella sua autobiografia il senso d’imbarazzo che la percorreva quando, alle riunioni di lavoro, il presidente di turno si rivolgeva ai partecipanti salutandoli “Lady and Gentlemen”.
Più spazio alle donne, dunque, in politica estera come in altri luoghi della vita pubblica: si può e si deve, per carità. Senza illudersi però che l’apertura ad una maggiore presenza femminile nella gestione delle relazioni internazionali sia di per sé una miracolosa panacea. La storia recente, infatti, è punteggiata di decisioni di politica estera assunte, ispirate o condivise da donne di primo piano, che alla prova dei fatti si sono rivelate, nella migliore delle ipotesi, non particolarmente lungimiranti – nella peggiore, decisamente catastrofiche.
Viene alla mente, a questo proposito, il ruolo determinante nella decisione di Obama di intervenire militarmente in Libia nella primavera del 2011 svolto dal cosiddetto “partito delle amazzoni”: il Consigliere per la sicurezza nazionale Susan Rice e l’ambasciatore alle Nazioni Unite Samantha Power, entrambe paladine irriducibili della dottrina dell’interventismo umanitario. Qualche riserva sull’opportunità di mandare l’aviazione americana a bombardare la Libia ce l’aveva, per la verità, il segretario di stato USA dell’epoca, un’altra donna: Hillary Clinton. Presumibilmente, nella cautela manifestata nella circostanza poteva avere un certo peso anche il senso di colpa per il voto favorevole che il senatore Clinton (come numerosissimi altri suoi colleghi del resto) aveva dato nel 2002 alla sciagurata decisione di G.W. Bush d’intervenire in Iraq – una decisione che, giova ricordarlo, poggiava anche sul sostegno di Angela Merkel, a quei tempi leader dell’opposizione in Germania. E del resto la stessa Clinton avrebbe, di lì a poco, gettato alle ortiche ogni cautela. Da (ri)candidata in pectore alla presidenza non ha esitato a prendere di mira la politica estera dell’attuale titolare della Casa Bianca, accusandola di essere non sufficientemente “robusta”. E si è avventurata anche in paralleli tra Putin e Hitler storicamente azzardati, e politicamente – è lecito sospettarlo – controproducenti. Come non ricordare, infine, l’etichetta appiccicata dall’altra Rice, Condoleezza, all’azione israeliana in Libano nell’estate 2006, che l’allora segretario di stato salutò come “le doglie del parto di un nuovo Medio Oriente”? Aveva, a suo modo, visto giusto: peccato però che la nuova creatura medio-orientale avesse sembianze (quelle del leader di Hezbollah Nasrallah, vincitore morale e politico del conflitto) diametralmente opposte a quelle preconizzate dalla Rice.
Certo, questi episodi sporadici, e tutto sommato isolati, di sventatezza al femminile nella gestione delle crisi internazionali non possono oscurare le responsabilità ben più gravi da addebitare ai colleghi maschi. Dalla triade Bush-Cheney-Rumsfeld allo stesso Obama, per non fare che alcuni nomi: l’elenco sarebbe lungo e potenzialmente interminabile. Una verità più profonda allora è che la saggezza, l’esperienza e la competenza nella gestione delle relazioni internazionali, come del resto i loro opposti, ignorano le differenze di genere. Parafrasando Clemenceau – che diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai generali – se ne dovrebbe concludere che la politica estera è una cosa troppo seria per renderla ostaggio di dispute di genere.