La questione dell’etichettatura Made In continua a fare discutere gli Stati membri, e la presidenza italiana lavora per “ottenere il migliore compromesso possibile e raggiungere un accordo in Consiglio”. Lo ha dichiarato il sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari in un’audizione in commissione Mercato interno e Diritti dei consumatori del Parlamento europeo. Vicari si è detta consapevole che si tratta di una “questione difficile”, e ha sottolineato che il nostro Paese “non auspica un compromesso”, ma che “ritiene verosimile” che si potrebbe doverlo raggiungere per superare l’impasse. Intanto “la presidenza italiana ha chiesto alla Commissione europea un parere sull’impatto dell’articolo 7, che la Commissione si è detta disponibile a realizzare in tempi stretti ”. “Si tratta – ha aggiunto Vicari – di uno sviluppo importante per consentire di raggiungere un accordo in Consiglio su una questione così importante”.
L’articolo 7 sul Regolamento sulla sicurezza dei prodotti di consumo proposta dalla Commissione nel febbraio 2013 stabilisce l’obbligo di indicare l’origine di tutti i prodotti. Questa proposta vede la forte opposizione di Paesi come Germania e Regno Unito che temono ripercussioni negative sui propri mercati. A quanto pare in Consiglio si sta già studiando un piano B qualora questi Paesi volessero mettersi di traverso a tutti i costi. Si tratterebbe di circoscrivere i campi in cui si introdurrà l’obbligatorietà del Made In. Per l’Italia il settore tessile e agroalimentare sarebbero irrinunciabili ma il nostro Paese sarebbe disposto a fare un passo indietro su altre questioni, come quella del mercato automobilistico dove è la Germania a premere perché non ci sia l’indicazione di provenienza, con aziende come la Volkswagen che tendono sempre più a delocalizzare le produzioni. Con la Fiat che fa la stessa cosa ormai da anni per il nostro Paese non sarebbe certo un problema.