Riceviamo e pubblichiamo questo intervento di Berlaymont, uomo vicino agli ambienti della Commissione, sulla questione del debito italiano.
Con un debito pubblico superiore al 135% del Pil, un’economia in recessione, un’inflazione ai minimi storici e il precedente greco, l’ipotesi di una ristrutturazione del debito italiano non è più riservata alle discussioni filosofiche del dopocena: è diventata un rischio reale e un’opzione di politica economica da prendere seriamente in considerazione. Un rischio, perché potremmo trovarci tra qualche anno senza alternative credibili. Un’opzione, perché si potrebbe anche repudiare parte del debito in una maniera preventiva, prima che fosse inevitabile.
Da un punto di vista legale, il debito italiano non sarebbe così difficile da ristrutturare: la nostra situazione su questo fronte è molto più favorevole di quella dell’Argentina, che continua a dare battaglia nei tribunali americani dopo dieci anni di inadempienza, ma anche della Grecia. Infatti, circa due terzi del debito italiano è di proprietà italiana ed è priva di contratto, il che lascerebbe una grande latitudine al governo nel caso in cui esso decidesse di prendere la strada della ristrutturazione. Dal punto di vista economico, la storia recente ci insegna che le ristrutturazioni non hanno di norma conseguenze disastrose dal punto di vista della crescita e che molti paesi riescono ad accedere nuovamente ai mercati dopo due o tre anni. Il caso dell’Italia è diverso, però: i precedenti, infatti, riguardano perlopiù piccoli paesi emergenti o in via di sviluppo. L’Italia, dal canto suo, ha invece uno stock di debito tra i più alti al mondo, ed è un paese avanzato e molto integrato. In questo senso, non esiste un vero precedente per un ripudio del debito dell’entità di quello italiano.
Sull’ipotesi ristrutturazione, dunque, aleggia un’incertezza molto grande, che viene dalle caratteristiche dell’economia italiana e dalla struttura patrimoniale del paese. Non si parla sufficientemente di chi non sarebbe rimborsato se l’Italia non pagasse parte del suo debito. Spesso si pensa che quando lo stato rimborsa un titolo in scadenza i soldi vengano mandati all’estero. Non è sempre così: nella maggior parte dei casi i soldi non vengono mandati a Bruxelles o a Berlino ma rimangono in Italia. Come già detto, due terzi del debito italiano sono detenuti da creditori italiani: banche, famiglie, assicurazioni, fondi comuni, ecc. Sostanzialmente, una ristrutturazione del debito sarebbe una tassa, una patrimoniale sotto mentite spoglie; si tratterebbe, in poche lavoro, di un un prelievo all’economia italiana.
Sarebbe sbagliato credere che solo i benestanti sarebbero toccati: sono molti i piccoli risparmiatori che detengono una parte significativa del loro patrimonio in titoli di stato. Tra perdite per chi ha investito il proprio denaro in Btp, pensione ridotta per chi aveva azioni in un fondo pensione e banche ed assicurazioni che andrebbero fallite, sarebbe colpita la maggior parte degli italiani.
Il caos risultante nel mondo bancario e assicurativo sarebbe inoltre costoso per l’economia italiana, i cui canali di finanziamento sono già chiaramente deficienti: il destino delle banche e delle assicurazioni italiane è infatti indissolubilmente legato a quello del debito pubblico italiano. Ovviamente, il vantaggio principale di una ristrutturazione del debito rispetto a una patrimoniale classica è politico: si eviterebbe di dover decidere chi e come prelevare, scelte politicamente molto difficili, ma basterebbe aspettare che i vari titoli giungano a scadenza. Come dice il proverbio immobilista, non esiste un problema che nel lungo periodo un’assenza di soluzione non possa risolvere.