di Biagio Bossone, Marco Cattaneo, Warren Mosler e Giovanni Zibordi
Flessibilità fiscale per l’Italia?
Con una politica economica fortemente ingessata e uno spazio fiscale residuo pressoché inesistente, il Presidente del Consiglio Renzi cerca di ottenere dall’Europa margini di flessibilità per un’implementazione più attenuata del Fiscal Compact.
Riteniamo che, semmai tale flessibilità venisse concessa, essa sarebbe largamente insufficiente rispetto all’esigenza di rilancio della domanda interna del paese. Oltretutto, maggiore flessibilità significherebbe nuovo debito.
Lo scorso anno, il deficit di bilancio dell’Italia è rimasto attestato al 3% del Pil e il surplus primario del 2.2%, il più ampio in Europa, ha eguagliato quello della Germania. Sei anni di tasse in aumento, tuttavia, hanno interrotto la crescita e non hanno impedito il continuo aumento del debito, mentre la produzione industriale si è contratta del 25%, l’occupazione è scesa di oltre un milione di unità e la disoccupazione è più che raddoppiata.
Non ci si può attendere che stimoli adeguati promanino dalla politica monetaria. È difficile immaginare che le misure della Bce da sole bastino a riattivare il credito. Né la disoccupazione potrà essere riassorbita da una modesta ripresa delle esportazioni. Non v’è nemmeno ragione per credere che riforme nel campo della giustizia, istruzione, governabilità e competitività, per quanto necessarie per modernizzare il paese, servano a riavviare la ripresa.
Un nuovo strumento per crescere
In tali condizione, proponiamo che lo stato italiano emetta dei Certificati di Credito Fiscale (CCF) per assegnarli senza contropartita a imprese e lavoratori in funzione del costo del lavoro sostenuto dalle prime e della retribuzione netta dei secondi. I CCF sarebbero equivalenti a delle cambiali commerciali e non prevedrebbero obbligo di rimborso da parte dello stato. A due anni dall’emissione, tuttavia, lo stato s’impegnerebbe ad accettarli per il pagamento di tasse e di qualsiasi altra obbligazione finanziaria ad esso dovuta (contributi pensionistici, previdenziali e sanitari, multe, ecc.).
I percettori di CCF potrebbero immediatamente convertirli in euro, vendendoli sul mercato finanziario a uno sconto analogo a quello su un titolo di stato zero coupon a due anni, e spenderli per l’acquisto di beni e servizi. I CCF sarebbero una quasi-moneta. I due anni di differimento servirebbero a dare all’economia il tempo di aumentare la produzione di beni e servizi in funzione dell’accresciuta domanda, generando incassi erariali che compenserebbero la diminuzione degli introiti in euro conseguente ai versamenti effettuati in CCF.
Le assegnazioni di CCF sarebbero destinate alla riduzione del cuneo fiscale, accrescendo il reddito disponibile dei lavoratori e abbattendo il costo del lavoro per le imprese. Le allocazioni dirette supererebbero l’inefficacia dei meccanismi creditizi tradizionali: genererebbero capacità di spesa senza creare indebitamento. I maggiori redditi disponibili sosterrebbero i consumi mentre la riduzione del costo del lavoro incoraggerebbe occupazione e competitività. La bilancia commerciale resterebbe in equilibrio, in quanto le maggiori esportazioni nette consentite dal recupero di competitività compenserebbero la crescita di import conseguente alla ripresa. Il flusso di allocazioni di CCF e la non esigenza di copertura delle stesse attraverso futura tassazione darebbero luogo a consistenti effetti moltiplicativi della spesa sul Pil.
Impatto dei CCF
Con un output gap pari a €300 miliardi relativamente al trend pre-crisi, e ipotizzando stime conservative del moltiplicatore fiscale, l’Italia potrebbe chiudere il gap in 3 o 4 anni emettendo CCF per €200 miliardi all’anno (con un flusso peraltro modulabile in relazione alla risposta del Pil, senza mai eccedere il limite di Maastricht del 3% sul budget e avviando a riduzione il rapporto debito/Pil). Il taglio al cuneo fiscale diverrebbe permanente, la ripresa della domanda giustificherebbe nuovi investimenti e le migliorate prospettive economiche riattiverebbero il circuito del credito.
Peraltro, dato il volume di risorse attualmente inoccupate, la nuova spesa indotta dai CCF non alimenterebbe l’inflazione, tenuto anche conto dell’effetto deflattivo dei CCF sul costo del lavoro per le imprese. E comunque, se l’inflazione dovesse moderatamente ravvivarsi, ciò sarebbe coerente con gli obiettivi della Bce.
Che ne penserebbero i paesi partner?
Nelle attuali condizioni di politica economica nulla può controbilanciare le pressioni deflazionistiche che affliggono le economie dell’eurozona maggiormente indebitate, dove la sfida è quella di trovare il modo di sostenere la domanda. I CCF sono la risposta a questa sfida: rilanciano la domanda senza creare debito, poiché i governi che li emettono s’impegnano ad accettarli per il pagamento delle tasse, non a rimborsarne il valore in una qualche data futura.
I paesi creditori, comprensibilmente, chiedono il rispetto di limiti rigidi all’emissione di nuovo debito da parte dei paesi già fortemente esposti, ma non hanno ragioni valide per limitare l’emissione di strumenti non di debito, come i CCF, miranti a combattere la recessione. E poiché i CCF non danno luogo a future obbligazioni di debito per gli stati emittenti, la loro allocazione non ricadrebbe fra le regole del Fiscal Compact e non rientrerebbe nel calcolo del deficit.
Certo, rimane la posizione della Germania, la quale, ad onta di ogni logica economica, vuole che non passino misure atte a sostenere la crescita poiché il successo di queste eliminerebbe lo stimolo all’attuazione delle riforme strutturali che, da sole per i tedeschi, sono garanzia di un ritorno a una crescita sana.
Ma insistere sull’attuazione di riforme strutturali in un contesto di domanda depressa è proprio il modo migliore per impedirne l’attuazione. Le riforme hanno costi di breve-medio termine ed impatti negativi sulla domanda. La stessa Germania, del resto, sforò il limite del 3% nel rapporto deficit pubblico/Pil per riuscire ad avviare le riforme Hartz, nonostante un contesto economico mondiale e, soprattutto, europeo nettamente più favorevole di quello odierno.
In realtà, la soluzione dei CCF – che in linea di principio è adottabile da ciascun paese in crisi dell’eurozona – consentirebbe la ripresa dell’output, rafforzerebbe la sostenibilità fiscale e contribuirebbe a creare un clima favorevole alle necessarie riforme strutturali, che il governo potrebbe affrontare chiedendo il consenso delle parti sociali proprio in cambio della politica di forte stimolo alla domanda che i CCF renderebbero possibile.
Risposte ad alcuni primi quesiti e commenti da lettori della proposta “Se fossi un dipendente, non so quanto sarei contento di vedere il mio stipendio passare da 1.200 a 1.000 euro per ricevere 300 CCF”. L’assegnazione di CCF sarebbe aggiuntiva al reddito percepito in euro, non sostitutiva di una sua parte.
Lo stato emette CCF per finanziare appalti pubblici”. I CCF non verrebbero utilizzati dallo stato per l’acquisto di beni e servizi o per il finanziamento di opere. Una volta emessi essi sarebbero trasferiti senza contropartita alle imprese e ai lavoratori delle imprese.
“L’idea è quella di una moneta complementare che possa affiancare l’euro”. I CCF non sono moneta in senso proprio: per essere spesi essi debbono essere prima convertiti in euro, similmente a quando si liquida a sconto un qualsiasi titolo presso il sistema bancario. Alle banche conviene cambiare CCF in euro sia per il premio che incassano, sia perché possono usare i CCF per pagare le proprie obbligazioni fiscali al termine del periodo di differimento. Nulla vieta che il gradimento dei CCF da parte del pubblico possa farne uno strumento di pagamento diretto. Tuttavia, ciò sarebbe una scelta dei cittadini e non vi sarebbe obbligo ad accettarlo imposto dallo stato.
“Se il lavoratore viene pagato in parte in CCF, risulta che egli ha guadagnato meno e quindi ha versato meno contributi Inps. Che impatto ha tutto questo sulle pensioni?”. L’assegnazione di CCF è un trasferimento aggiuntivo al reddito. Nulla cambia in termini di obblighi contributivi e diritti pensionistici.
“Ma i CCF costituiscono un’uscita dall’euro?”. Sì e no: rappresentano un’uscita dai vincoli dell’attuale eurosistema, che sono comunque insostenibili o addirittura (vedi il Fiscal Compact) inapplicabili. Permette però all’euro di sopravvivere come unità di conto e come moneta circolante, evitando i pericoli, potenzialmente molto gravi, e le difficoltà di attuazione del break-up. |