Franco Cordelli (lo conosco di persona solo nel 2010 a Ventotene, in occasione del premio Passioni che, da giudice unico, mi assegna per L’eroe del giorno, ex aequo col romanzo di Vito Bruno L’amore alla fine dell’amore) è sempre stato, ben al di là dell’anno di differenza che lo rende un po’ più vecchio di me, una specie di continuo e affidabile fratello maggiore. Lui lavora alla scrittura quando io, invece, latito per occuparmi d’altro. Lavora, soprattutto, su modalità e in una direzione che comunque non sarebbero state (e non saranno) le mie, il che me lo rende ancora più caro, perché sono le differenze a farci onestamente simili a chi ammiriamo, scevre come sono dal sospetto di ammirare noi stessi nell’altro.
C’è un solo precedente di comunicazione diretta, fra noi, ed è di carattere epistolare. Quando io gli spedisco il mio secondo libro di poesie, Il giardino urbano (Empiria, 2003) lui mi scrive una breve lettera piena di pertinenti osservazioni che chiamano in causa versanti sempre originali del riflettere. È la sua dote maggiore, è la sua ricchezza di studioso appassionato e mai sazio, quella di tentare osservazioni che non seguono strade note, peritandosi ogni volta di aprirne di nuove, col rischio di smarrirsi scongiurato, sempre, dall’intelligenza con cui lega le ipotesi che avanza ai numerosi appigli di uno sterminato repertorio di conoscenze non solo letterarie.
Ricordo una lunga intervista a Cordelli uscita su Alias del Manifesto grazie alla quale sento parlare per la prima volta, come di un capolavoro, del romanzo Mandala solido, dell’australiano Patrick White. Ho la fortuna di trovarlo su una bancarella poco dopo. Ma questi non sono che dettagli, giacché va detto che il suo acume critico trova un perfetto riscontro nella sua narrativa; la quale – con un angolo d’incidenza prospettica che la rende di una estrema particolarità – presenta una filigrana che ne fa la gemella (non monozigote) della sua migliore voce critica. La lettera che gli spedisco a metà del 2012 non ha risposta (non la chiede neanche). Mi auguro solo che l’abbia ricevuta.
Caro Franco,
come stai? Non abbiamo una consuetudine epistolare, e se ora sto rubando un po’ del tuo tempo è perché ti considero corresponsabile della ragione che mi ha spinto a scriverti. Mi spiego. Due antefatti stanno alla base di questa ragione. Il primo è che per i postumi di un incidente godo di un’inedita quantità di tempo libero, circostanza che, come è proprio di ogni rottura delle routine, espone a imprevedibili (per molti casi imbarazzanti) effetti collaterali. Nel mio caso si è di colpo decuplicato il tempo per la lettura, e proprio grazie a questa disponibilità sono capitato su una tua pagina dove affermi qualcosa alla quale mi è stato impossibile non replicare. Il secondo antefatto è la mia partecipazione – assieme ad altri scrittori, al Brancaleone, il primo giugno – a “Parentele fantastiche”, dieci minuti ciascuno per leggere un proprio testo e quello di un autore col quale ci si sente apparentati. Il tema della serata è l’indipendenza, ma come tutti i buoni pretesti anche questo gode di una latitudine interpretativa così ampia da poterlo tranquillamente ignorare senza il rischio di tradirlo. Nell’organizzare la lettura, invece, mi sono subito domandato se l’apparentamento dovesse riguardare le (de)formative passioni giovanili (avrei dovuto optare, allora, per il Sartre de La nausea, o per il Malaparte de La pelle, per il Rilke de I quaderni di Malte Laurids Brigge o per il Musil de I turbamenti del giovane Törless grazie al quale, passando per il sartriano “Infanzia di un capo”, contenuto nella raccolta Il muro, sono arrivato, per quel corto circuito che a volte si crea fra temi e autori, al Drieu la Rochelle di Fuoco fatuo, scansando sia il Musil maggiore de L’uomo senza qualità – troppo affollato di estimatori poco convinti e molto inattendibili – sia Céline, della cui ricchezza verbale non ho potuto godere a causa dei toscanismi che infarcivano la mia traduzione del Voyage) o se invece potessi apparentarmi anche attraverso recuperi senili tra i quali per me, oggi, predomina incontrastata la figura di Claude Simon. Metti per un attimo da parte le legittime perplessità che l’accostamento della mia scrittura a quella di Simon può generare (l’aggettivo “fantastiche” espone le “parentele” al più blasfemo arbitrio) e considera solo che, avendo scelto l’ipotesi del recupero senile, infine ho selezionato un brano de L’erba che mi sembra abbastanza rappresentativo delle qualità formali di questo grande e misconosciuto (nonostante il Nobel) scrittore. A quel punto, per vedere più chiaro nella mia scelta, mi sono rivolto a La religione del romanzo, curioso di conoscere il tuo pensiero su Claude Simon, e soprattutto attraverso quali argomentazioni lo sviluppassi. Ho così letto “Simon. Tutto il mondo è Venezia” ed è stato un bel confronto, ricco di illuminanti connessioni e sintesi (mi capita sempre coi tuoi scritti; è un po’ come il chiarirsi improvviso di una complessità dei cui benefici riesco a godere senza mai finire in pantofole, perché presto quella chiarezza, in quanto capace di svelare altro, mostra l’oscuro di nuove interrogazioni prima invisibili, premessa del lavoro futuro, promessa di ulteriori scoperte). Ricordo, in proposito, il collegamento scaturito da quello che ritengo il cuore più intimo de La marea umana, ovvero l’episodio della notte di Cernobbio, con la penosa sistemazione di (s)fortuna che nega il sonno all’io narrante e lo spinge a vagare nella casa estranea alla sola fioca luce lasciata accesa per non esporre l’ospite agli smarrimenti notturni. Ecco, quello stare di notte in canottiera e mutande, senza occhiali, davanti ai nomi dei morti (i libri), grato della finitudine terrena perché altrimenti la marea umana si farebbe travolgente, quell’essere eroicamente solo e disarmato di fronte al mondo, padrone soltanto di un pensiero che non è detto possa rivelarsi salvifico, mi ha collegato, per una contrapposizione così estrema da rasentare la vicinanza, alla solitudine cui si riferisce Drieu la Rochelle in Diario di un delicato, laddove il protagonista, dopo aver proposto a Jeanne di visitare con lui il Partenone, scrive: “Sarà una gioia mostrarglielo. Mi chiedo se tale gioia sostituirà l’altra, la gioia di essere solo mentre guardo il Partenone. Solo non per egoismo, ma spogliato degli altri per spogliarmi di un io che vive solo per reazione automatica a loro”. Ebbene, attraverso quello “spogliato degli altri” (il protagonista de La marea umana prende atto di sé attraverso il confronto con le diverse scelte di Aki, l’altro, l’amico che si è allontanato dall’origine comune e ha scelto di diventare padre), è stato come se il riflettersi di una solitudine ricca di mature articolazioni, come quella da te raccontata, sull’altra così elementare e ingenua da parere pre-psicanalitica del Diario di un delicato avesse restituito, alla tua, un’energia di fossile pacificazione, una sorta di definitivo e risoluto “così è”, o meglio “così deve essere” che ben si presta al percorso esistenziale della generazione a cui appartengono i due amici, e che è il banco di prova con cui l’io narrante fa conti risolutivi con l’intera propria vicenda.
Ma torniamo in argomento. Perché ti considero corresponsabile di questa lettera? La risposta si
trova all’inizio del secondo paragrafo del tuo “Simon. Tutto il mondo è Venezia”, là dove dici: “Non conosco una sola persona che abbia letto più di un romanzo di Claude Simon”. Non c’è data a indicare la redazione del tuo scritto, ma poiché in chiusura parli anche de L’acacia, uscito in Italia nel ’94, presumo che sia contemporaneo o successivo ad allora. Proprio quell’anno ho recensito L’acacia su “la talpa libri” del Manifesto e nel mio pezzo sottolineavo, fra l’altro (è un peccato che non ritrovi la recensione, avrei potuto essere più preciso) come Simon ricorra, con una frequenza contenuta ma percepibile, all’utilizzo scoperto di propri materiali scrittòri presi testualmente da precedenti opere. Così fa per il finale de L’acacia, identico all’incipit di Storia (non ho verificato sui testi originali, ma credo che le lievi differenze dell’italiano siano dovute ai diversi traduttori), così è per un episodio de L’acacia in cui è descritta la morte di un soldato a cavallo che s’inclina e scivola lentamente al suolo come un soldatino di piombo che fonde dalla base, stesso episodio e stesso paragone utilizzato in La strada delle Fiandre. Non ricordo se ne ho segnalati ancora, in quella recensione, ma ricordo bene come, leggendo L’acacia, questi particolari fossero emersi in me con la forza delle reminiscenze, quasi stessi rivivendo episodi della mia vita anziché scoprirmi a leggere brani già letti.
Eccoci al punto; noi allora non ci conoscevamo e questo fa sì che la tua affermazione “Non conosco una sola persona che abbia letto più di un romanzo di Claude Simon” resti perciò, tanto tendenziosa quanto legittima. Ma proprio in quanto tendenziosa (con buone intenzioni, perché continui dicendo: “Eppure è uno dei grandi scrittori viventi; forse, dopo la morte di Thomas Bernhard, lo stilista maggiore”) mi piace chiarire, a molti anni di distanza, che quando ho recensito L’acacia su “la talpa libri”, di Simon avevo già letto (li cito in ordine cronologico di pubblicazione in Italia, che non corrisponde a quello dei miei incontri): L’erba, La strada delle Fiandre, Il Palace, Storia, Trittico; solo La battaglia di Farsalo, invece, è stato post Acacia. Sono dunque un mostro, se fra i tuoi amici del tempo non ne trovavi uno che avesse letto due romanzi di Simon e io invece, all’epoca, ne avevo attraversati ben sette? Non credo, e poiché non sono uno studioso di Claude Simon, né un francesista e tanto meno un critico, posso spiegare l’anomalia con quegli exploit di dilettanti baciati, per inconsapevolezza, dalla fortuna, e graziati, per fortuna, anche dal solo immaginare quanto pericoloso possa essere trovarsi, casualmente, dove non si dovrebbe stare (certi luoghi competono agli specialisti o, in mancanza, al deserto regnante, per dirla col primo Bonnefoy). Ma questa è un’altra storia, e c’entra poco col piacere di parlare con te di libri, che in fondo è la principale ragione che mi ha spinto a scriverti. Oltre, va da sé, al gusto narcisistico di condividere un appagamento predatorio non troppo dissimile da quello che immagino pervada, sul far della sera, il cacciatore fortunato.
Ti ringrazio per l’attenzione e ti auguro buon lavoro. Un caro saluto,
ps – Mossi tutti da fondate (a sentir loro) motivazioni, cinque passeggeri, dai modi decisi ma mai insolenti, chiedono d’imbarcarsi su questa lettera. Non me la sento di lasciarli a terra, però non intendo neanche sacrificare quanto già ha trovato posto nell’ordine di una stesura; così ho concesso loro di accomodarsi, alla meno peggio, nella stiva del post scriptum.
Primo passeggero (ingombrante) – Parlando di Simon citi, come esempio di romance, Racconto d’inverno. Niente da obiettare, figurati, e come non essere d’accordo; ritengo, anzi, sia l’opera di Shakespeare per la quale, più che in altre, mi sono trovato a pensare a lui come a un genio della matematica, tante sono le possibilità combinatorie che quell’intricatissima trama non si stanca di dispiegare. Sembra quasi che anticipi il concetto di frattale, giacché ogni singola sua parte, a ben vedere, ha la stessa forma dell’insieme che contribuisce a comporre (non ti sembri irriguardoso, ma ho cominciato a capire il frattale solo dopo aver osservato, con attenzione, un broccolo romano).
Secondo passeggero (insinuante) – Mentre consideravo che “intesa” è femminile e “malinteso” maschile (evitando accuratamente di trarne facili deduzioni), ho preso atto dell’evidenza che La religione del romanzo si occupa di Virginia Woolf e non della sua coeva, e a tratti sodale, Katherine Mansfield (autrice di racconti memorabili) il cui valore letterario, e qui so di rischiare il pettegolezzo, desumo, oltre che dall’evidenza testuale, anche dalla non sempre controllata avversione che le rivolse, nell’accoglierla, l’autrice di Una stanza tutta per sé, capace di stigmatizzare, credo in una lettera, la sconveniente selvatichezza di certi odori corporei emessi dalla neozelandese.
Terzo passeggero (grato) – A proposito di Patrick White (ti ho già espresso la mia gratitudine per aver segnalato un romanzo come Mandala solido che ho avuto la fortuna di trovare su una bancarella poco dopo aver letto il numero di Alias in cui ne parlavi), non so se sia improprio, ma io ci ho pensato, soprattutto a seguito della recente riedizione, presso Bompiani, de L’occhio dell’uragano (non si poteva osare una nuova traduzione invece di ripetere quella a sei mani del ’74?), potrebbe esistere un certo parallelismo tra il tema jamesiano del conflitto tra forza primigenia del nuovo mondo e decadente ricchezza culturale della vecchia Europa e la vicenda della protagonista del romanzo, Elizabeth Hunter, che sradica i due figli dall’Europa dove entrambi hanno scelto di vivere, e li convoca imperiosamente in Australia attorno al suo letto d’ospedale dov’è intenta a morire perché facciano i conti con l’origine, rappresentata, qui, dall’assoluta rilevanza della sua figura di madre, accentratrice e onnipotente come già fu la donna e la moglie (sono forse sempre così, le origini?). Certo, l’australianità di White non è lineare. Nasce a Londra da genitori australiani, torna in fasce in Australia che poi lascia per gli studi secondari e universitari in Inghilterra dove resta (prima a Cambridge, poi a Londra, parentesi bellica compresa come pilota della RAF) fino al ’48, l’anno in cui compie la grande scelta di tornare nell’isola-continente. Ha trentasei anni, White, allora, e ha appena pubblicato il suo terzo romanzo “europeo” The Aunt’s Story, uscito in Italia nel ’74 col titolo di Mai un passo amico presso il Club degli Editori con una traduzione così disinvoltamente oscura che ho interrotto di leggerlo (“Con quel suo leggero, strano senso di colpa, Frank Parrott chiudeva la porta. Teodora osservò le vene di lui e la bocca atteggiata come a fronteggiare qualsiasi giudizio, ostile o meno. Teodora non voleva giudicar male Frank. Tutt’al più considerava con spassionato rammarico il processo per cui il bronzo si può fondere in grasso. Ma Frank reagiva anche solo al sospetto di un perdono”). White, dunque, alle soglie dell’età matura sceglie l’Australia, dove resta, con alterna fortuna, scrivendo i suoi romanzi migliori che gli varranno il Nobel nel ’73, fino alla morte, nel ’90. L’esatto contrario di James che sceglie, invece, di vivere e morire in Europa.
Quarto passeggero (germanista) – Ho visto che La religione del romanzo parla anche de La dedica, di Botho Strauss, che a suo tempo mi colpì; tanto che lessi ancora, del suo autore, Coppie, passanti, prima, e La sorella di Marlene, dopo, usciti da Guanda nell’84 e nell’85, e ancora La catena delle umiliazioni, apparso nel ’92 presso Leonardo, ma senza trovare in nessuno dei tre altrettanti motivi d’interesse. La dedica è dell’80, stesso anno in cui Feltrinelli pubblica quell’incompiuto laboratorio a cielo aperto che è Il viaggio, di Bernward Vesper (so che lo conosci perché ne hai parlato in un articolo su Uwe Timm), che con le sue febbrili quattrocentocinquanta pagine, oltre che per i lutti in cui è immerso (stride che il figlio di Gudrun Ennslin e di Bernward Vesper, a cui il libro è dedicato, si chiami Felix) si staglia, unico e irripetibile, nella controllata parsimonia scrittoria degli autori di lingua tedesca suoi coevi. Tra i quali ricordo, con l’attenzione che si riserva agli spariti, l’austriaco Peter Rosei, autore, presso Feltrinelli, di Chi era Edgar Allan?, circa centoventi pagine di trasalimenti veneziani sul filo della memoria che si chiude con un’epigrafe di Keith Richard. Dopo di che, non credo sia uscito più nulla, di suo, in Italia.
Quinto passeggero (intimista) – Da ultimo, ma non meno importante. Ti ho scritto perché, da lettore esigente, approfittando di un’occasione imprevista ho provato a condividere qualche pensiero sui libri con quella sorta di gigantesco fratello maggiore che, attraverso i tuoi scritti pubblici, sei da tanto ai miei occhi (non sentirti gravato da oneri epistolari, come vedi quello che mi dai non necessita di gesti privati). Non posso negare, però, di essere, al contempo, anche uno scrittore, benché in imperdonabile ritardo su tutti i tempi consentiti, debiti o indebiti che siano. Qui il discorso si complica e te lo risparmio. Sappi solo che sono consapevole di aver lavorato a lungo in un ambito che, per dirla con le tue parole, sfiora “l’idealismo dello scrittore culturalmente arretrato”. Da un paio d’anni, sebbene dolorosamente, non è più così, e il lavoro in corso, con la sua ragguardevole e conquistata voce nuova, mi permette di guardarmi alle spalle col sollievo degli scampati. Puoi immaginare come questo mi faccia sentire meno improprio il mio scriverti.