di Lorenzo Consoli
Jean-Claude Juncker, il presidente eletto della Commissione europea, è riuscito nel suo intento di sorprendere e dare il senso di una cambiamento radicale nel modo in cui sarà strutturato e opererà il suo nuovo Esecutivo. Che sarà, almeno nelle intenzioni, meno “presidenzialista”, meno personalizzato, e molto più collegiale, meno burocratico e più “politico”, molto meno permeabile alle spinte intergovernative e alle pressioni lobbistiche, e molto più “comunitario”, ovvero attento all’interesse generale dell’Europa e dei suoi cittadini, che è poi esattamente il ruolo previsto dai Trattati Ue.
Innanzitutto, la struttura: sette vicepresidenti con potere di veto sulle iniziative dei commissari “semplici”, ognuno responsabile dell’attuazione di una delle priorità politiche della nuova Commissione, a cominciare dal ritorno alla crescita economica e alla creazione di posti di lavoro. Molto si è scritto, nei giorni scorsi, sul potere di supervisione dei vicepresidenti, che ridurrebbe gli altri commissari al ruolo di comprimari. In realtà, nelle “lettere di missione” che Juncker ha inviato a ciascun commissario designato, non si parla di supervisione dei vicepresidenti, ma si insiste molto sul loro ruolo di coordinamento, di guida (“steering”), e di valutazione della coerenza delle iniziative prese dai commissari con gli obiettivi e le priorità della strategia e della visione della nuova Commissione.
Un cambiamento che si rifletterà persino nel servizio del portavoce, il servizio stampa della Commissione, che sarà notevolmente ridotto, spezzando il legame stretto che si era installato fra ogni singolo portavoce e il “suo” commissario: chi parlerà a nome dell’Esecutivo Ue, parlerà per il “collegio”, non per un suo singolo membro. Non si tratta di novità assolute: era così ai tempi di Jacques Delors, al quale Juncker ha detto chiaramente di ispirarsi.
Semplificando molto, nessun commissario potrà prendere iniziative da solo, presentandole poi ben impacchettate alle riunioni del Collegio per farsele approvare “sulla fiducia” dai propri colleghi. In realtà, anche anche oggi le iniziative dei commissari sono oggetto di “consultazioni interservizi” e discussioni a volte anche accese nelle riunioni settimanali dei capi di gabinetto, prima di approdare alla decisione finale. Ma le mediazioni avvengono a livello burocratico, non politico, sono meno trasparenti, e alla fine vengono spesso risolte d’autorità con l’intervento della presidenza della Commissione o del Segretario generale, entrambi spesso cinghia di trasmissione di input governativi o intergovernativi, se non di gruppi di pressione. Passa da qui – e dal ritorno dell’alleanza “naturale” della Commissione con l’Europarlamento – il ristabilimento del “metodo comunitario”, messo in crisi dalla sbornia intergovernativa che ha fatto deragliare l’Europa nella gestione della crisi dell’eurozona, affidata soprattutto al Consiglio europeo, all’Eurogruppo e addirittura all’oscura troika.
Una seconda considerazione riguarda i criteri di scelta per l’assegnazione dei portafogli: è stato ampiamente notato come diversi commissari designati si ritrovino con portafogli che hanno un legame diretto con il paese di provenienza, perché riguardano interessi nazionali propri di quel paese: come per il britannico Jonathan Hill, ai Servizi finanziari, o l’irlandese Phil Hogan all’Agricoltura. Un legame che può anche essere di natura diversa e più controverso: come nel caso del greco Dimitris Avramopoulos, ministro di un governo criticatissimo per la gestione dell’immigrazione clandestina, a cui è stata assegnato proprio il portafogli Immigrazione e Affari interni; o del maltese Karmenu Vella, ministro del turismo di un paese costantemente in infrazione sulla legislazione Ue per la protezione della natura, a cui è stato assegnato l’Ambiente; o ancora dell’ungherese Tibor Navracsis, ministro del governo autoritario di Viktor Orban – che ha cercato di mettere sotto il suo controllo la stampa, la magistratura, le Ong e persino la banca centrale nazionale – a cui è stata assegnata nientemeno che l’Educazione, Cultura e Cittadinanza. E come non citare, in questa lista, il francese Pierre Moscovici, ministro delle Finanze di un governo che ha sistematicamente mancato i propri obiettivi di riduzione del deficit pubblico, e che ora sarà responsabile degli Affari economici e finanziari, ovvero della sorveglianza di bilancio dei paesi membri?
Nel caso dello spagnolo Miguel Arias Cañete, il portafogli assegnato (Clima ed Energia) fa pensare quasi a uno scherzo di cattivo gusto, se non a una trappola: il commissario designato, oltre a essere totalmente privo di credenziali per quanto riguarda la lotta al cambio climatico, ha corposi interessi personali e familiari nell’industria petrolifera. E tutte le Ong ambientaliste, molto influenti nel Parlamento europeo, sono già sul piede di guerra contro la nomina di Arias Cañete, oltre che contro l’idea di combinare un “matrimonio perverso” fra le politiche del clima e dell’energia, che spesso hanno obiettivi contrastanti. Interessante è anche il caso del tedesco Guenther Oettinger, che parla a stento l’inglese e sembra sia completamente a digiuno delle problematiche di cui dovrà occuparsi come commissario all’Economia digitale (che comunque dipenderà anche dal vicepresidente Andrius Ansip, ex premier estone).
Tutte queste assegnazioni di portafogli, sorprendenti o addirittura paradossali, corrispondono a una stessa logica, simile a quella (applicata in tanti paesi) per cui sono i governi di sinistra che possono fare meglio le riforme economiche osteggiate dai sindacati di sinistra. Un machiavellismo a cui molto probabilmente non è estraneo il potente braccio destro di Juncker, il tedesco Martin Selmayr, suo futuro capo di gabinetto.
È tutto il nuovo Esecutivo, a ben vedere, a ritrovarsi nello stesso paradosso: prevalentemente di centro-destra (solo cinque membri socialisti), e con due vicepresidenti “rigoristi” responsabili per la Crescita e per l’Euro e il Dialogo sociale (il finlandese Jyrki Katainen il lettone Valdis Dombrovskis), la Commissione Juncker sarà sostenuta al Parlamento europeo da una maggioranza politica di centro-sinistra, che a sua volta si regge su una condizione precisa: che vi sia una svolta netta nelle politiche economiche, dall’austerità alla crescita, agli investimenti pubblici e privati, al rilancio della domanda. Spostando, si spera, sulla creazione di posti di lavoro la priorità finora attribuita all’attenzione spasmodica alla “fiducia dei mercati”.
Quanto ai singoli commissari, la logica del paradosso consiste nel renderli portatori dell’interesse comunitario di fronte al proprio paese, proprio sui “dossier” in cui più è forte il contrasto con l’Ue, invece si essere portatori dei propri interessi nazionali nella Commissione e nell’Ue. Da questo punto di vista, potrebbe presto essere sconfessato dalla realtà lo sfrontato grido di vittoria del governo britannico alla notizia dell’attribuzione dei Servizi finanziari a Lord Hill : “Penso sia una grande cosa per il Regno Unito avere qualcuno proprio al centro della Commissione, dell’Ue, per garantire che l’industria finanziaria si rafforzi sempre di più”, ha detto il premier David Cameron a commento della presentazione della nuova Commissione. Hill, tanto per cominciare, dovrà garantire solennemente al Parlamento europeo che perseguirà la politica Ue di limitazione dei bonus ai banchieri, contro il volere di Londra e della City.
Come Lord Hill, tutti i commissari designati dovranno passare un difficilissimo esame nelle commissioni europarlamentari competenti, prima del voto di fiducia della plenaria di Strasburgo. Se sopravviveranno alle audizioni del Parlamento europeo (che si svolgeranno dal 29 settembre al 7 ottobre, a Bruxelles), avranno dimostrato di essere politicamente abili, competenti, e impegnati a perseguire l’interesse generale europeo e gli obiettivi comunitari; altrimenti, dovranno cambiare portafogli, o essere sostituiti.