di Adamo
“Nulla sarà più come prima”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa, ed altre frasi a effetto che immancabilmente punteggiano i momenti di crisi? Tante; probabilmente troppe. Al punto che non sarebbero da biasimare coloro che hanno smesso di crederci, disillusi dal contrasto tra una retorica tonitruante e una realtà che, caparbia, resiste ad annunci e proclami di sorta. Anche la crisi ucraina non fa eccezione. Di pari passo con l’inasprimento del confronto con la Russia, da parte occidentale non sono state certo lesinate metafore forti, di grande suggestione e sicuro impatto mediatico. Gli ultimi mesi sono stati trascorsi all’insegna di un crescendo di “wake-up call”, “game-changer”, “land grab”, “assault (to security and international law)”. Non è mancato chi si è spinto anche oltre il Rubicone dei tabù, parlando apertamente di guerra. Nella fase più “calda” della crisi, un noto ministro degli Esteri europeo cinguettava garrulo: “If it looks like a war, sounds like a war and kills like a war, it is a war” (una citazione indiretta, di cui è da supporre che il diretto interessato non fosse consapevole, dei dialoghi della Guerra lampo dei Fratelli Marx).
Come spesso accade, l’efficacia concreta di queste posture è inversamente proporzionale alla loro intensità declaratoria. Incurante di dichiarazioni verbali e conclusioni scritte, moniti superciliosi e minacce sia pure accompagnate da offerte di dialogo, il conflitto che insanguina i confini orientali dell’Europa ha continuato a produrre la sue lugubre litania di vittime, devastazioni, popolazioni in fuga.
In verità, e lasciando per un istante il terreno dei discorsi seri che più si addicono ad un conflitto in cui è in gioco il destino di vite innocenti (e anche altro), la crisi ucraina ha prodotto anche un’altra vittima. Tra le macerie virtuali del diritto internazionale, mandato in frantumi dall’annessione russa della Crimea, e quelle fisiche di innumerevoli edifici dell’Ucraina sud-orientale, è finita dispersa quella diplomazia economica (ovvero: una certa idea della politica estera concepita come strumento della promozione dell’export) che fino a non pochi mesi addietro veniva additata da più parti come la nuova frontiera della diplomazia nell’era della globalizzazione e dell’interdipendenza del ventunesimo secolo.
Ironia della sorte: tra la stagione in cui i ministri degli Esteri di tutti i maggiori paesi industrializzati facevano vanto dell’asserita correlazione tra il loro peregrinare in giro per il mondo e la crescita delle rispettive esportazioni e quella in cui quegli stessi ministri, decretando un pacchetto sanzionatorio dopo l’altro, rendono nei fatti sempre più asfittiche le prospettive di crescita delle economie del continente, il passo è stato brevissimo, quasi impercettibile.
Ma forse è un bene che sia così. In fondo, era lecito dubitare che l’attivismo ministeriale avesse un’effettiva incidenza sull’andamento dei rispettivi made in (sulla performance dei quali probabilmente la qualità e il prezzo dei beni e servizi esportati dovrebbero essere variabili di maggior rilievo). Ed è sicuramente da salutare come uno sviluppo positivo la circostanza che i titolari della politica estera siano tornati ad occuparsi del loro core business, ovvero la gestione (e, se possibile, prevenzione) delle crisi internazionali. Lasciando ad altri, più qualificati ad esercitarlo, il ruolo di piazzisti ed agenti di commercio. E sperando che i benefici di questo loro ritorno alle origini non tardino a manifestarsi.