In sei anni l’industria italiana ha bruciato 520mila posti di lavoro. E’ praticamente il peggior dato di tutta l’Unione europea (peggio di noi solo la Spagna), che certifica lo stato di crisi del paese. Ciò nonostante quello italiano è uno dei governi che maggiormente si è messo in luce per misure volte a invertire questa tendenza e porre rimedio all’emorragia del comparto. E’ quanto emerge dal “rapporto sulla Competitività degli stati membri dell’Ue” pubblicato dalla Commissione europea. Lo studio si sofferma sulle performance del settore manifatturiero dal 2008 al 2012, e il risultato è che le imprese “hanno lottato duramente per mantenere inalterati i propri livelli di competitività durante la crisi nata nel 2008”. Una lotta vana: dal 2008 in tutto il territorio dell’Ue hanno perso il lavoro tre milioni e mezzo di persone, con il settore industriale che ha ridotto il suo peso nel Pil europeo, passando dal 15,8% dell’interno prodotto interno lordo dell’Ue del 2008 al 15,1% del 2013. Un passo indietro rispetto all’obiettivo della Commissione di portare entro il 2020 la quota di Pil europeo prodotta dal comporta al 20%.
Un risultato in negativo frutto anche dell’inadeguatezza delle azioni di governo. Prendendo in esame la qualità della pubblica amministrazione in generale e dei sistemi normativi, la Commissione rileva che “in media l’efficacia dell’azione di governo non è migliorata in questi anni”. Addirittura è peggiorata in 12 paesi su 28 (Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Regno Unito, Svezia e Ungheria). Mentre “i più grandi passi avanti” sono stati compiuti – nell’ordine – da Italia, Lettonia, Croazia, Bulgaria e Finlandia.
Il rapporto della Commissione europea suddivide i paesi membri dell’Ue in quattro gruppi: i pochi paesi ad alta e crescente competitività (Danimarca, Germania, Irlanda e Paesi Bassi), gli stati a competitività elevata ma stagnante o in calo (e l’Italia è fra questi, insieme ad Austria, Belgio, Finlandia, Francia, Lussemburgo, Regno Unito e Svezia), quelli a competitività modesta ma in crescita (Estonia, Grecia, Lettonia, Lituania, Polonia, Portogallo, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia e Spagna), e quelli a competitività modesta e stagnante (Bulgaria, Cipro, Croazia, Malta e Slovenia).