Sul lungo post a firma di Alessandro Di Battista è stato scritto e detto molto in questi giorni.
Definire la sua ricostruzione “fantasiosa” è a dir poco riduttivo. Indegno di un principiante che ha letto poco e male un libro di testo e si presenta ad un esame di storia contemporanea con un esito scontato di bocciatura. Sarà per questo che nel web che ormai ci conosce freudianamente bene, sul suo post campeggia la pubblicità del recupero anni scolastici.
Di Battista si lancia in un’improbabile analisi complessa e comparativa dagli anni venti, alla fine del colonialismo, all’era post coloniale, sbagliando date, fatti e nomi e mettendo insieme storie che tra loro c’entrano poco o nulla, finanche facendo un parallelismo tra sud america e medioriente che sta solo nella sua testa, e ignora la storia.
Sul punto nello specifico ha risposto ottimamente su Il Post Davide De Luca, con un articolo che andrebbe letto, a prescindere dal pensiero politico personale, da tutti coloro che hanno letto Di Battista, almeno per fare ordine e integrare gli errori.
Merita una menzione speciale la parte in cui il parlamentare pentastellato affronta coraggiosamente il caso e la morte di Enrico Mattei, in un mix tra il ripetere le cose sentite al bar e qualche appunto di wikipedia. Io ci ho scritto un’inchiesta completa. Si informasse. (Non contento di ovvietà parla anche en passant di F35 e LockheedMartin su cui francamente accetto poche lezioni, e decisamente migliori delle sue)
Nel tentativo di autocandidarsi a improbabile Ministro degli Esteri, Di Battista propone per la situazione mediorientale una serie di ricette condite da analisi che battono anche Razzi sulla Corea del Nord. Scrive Di Battista sull’ISIS:
L’obiettivo politico dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale ha una sua logica. Il processo di nascita di nuove realtà su base etnica è inarrestabile sia in Medio Oriente che in Europa. Bisogna prenderne atto e, assieme a tutti gli attori coinvolti, trovare nuove e coraggiose soluzioni.
E questo sancisce definitivamente non solo l’ignoranza (nel senso letterale che proprio “ignora” cosa sia e da dove venga il fenomeno) ma anche la mancanza della più semplice minima conoscenza di cosa sia e da dove venga ISIS.
L’idea spacciata da Di Battista è che ISIS sia un “movimento rivoluzionario indipendentista” di un’area specifica che si ribella al colonialismo americano. No. Non ha niente a che vedere con i contadini sudamercicani contro la UnitedFruit, men che meno con gli zapatisti o sedicenti movimenti rivoluzionari del Congo.
E allora proviamo a spiegare un pò di storia al nostro parlamentare, anche se è bene ricordare che esiste un ufficio, pagato da noi, alla Camera, cui può porre quesiti e fare ricerche per cercare, se davvero gli interessa, di dire meno castronerie (e alla fine spieghiamo perché in questo caso più che in altri queste castronerie sono davvero intollerabili).
ISIS è una creatura indipendente inventata nel 2000 da un signore di nome Al-Zarqawi. Abu Musab al-Zarqawi, giordano, dagli anni ’80, dai tempi della guerra tra URSS e Afghanistan, era stato prima rivale di Bin Laden all’interno del mujaheddin, e poi di lui alleato e numero tre di un’altra organizzazione di nome al-Qaida, creata per continuare a combattere “l’occidente”. (Finora quindi siamo a un giordano e un saudita in Afghanistan, niente a che vedere con un movimento di lotta partigiana in Iraq.) Andiamo avanti.
Al Qaida era nata sull’idea di sviluppare una specie di legione straniera, di ispirazione sunnita, che avrebbe dovuto difendere i territori abitati dai musulmani dall’occupazione occidentale.
Nel 2000 Zarqawi decise di fondare un suo proprio gruppo con obiettivi diversi da quelli di alQaida: voleva provocare una guerra civile su larga scala, in tutti i paesi musulmani, per mettere l’una contro l’altra le diverse fazioni religioso-etniche, per conquistare un potere personale basato sul califfato. Per raggiungere questo suo obiettivo ha deciso di sfruttare la complicata situazione religiosa dell’Iraq, paese a maggioranza sciita ma con una minoranza sunnita al potere da molti anni con Saddam Hussein (e già qui è facile capire che sunniti e sciiti sono solo un pretesto e la religione c’entra nulla).
In un libro pubblicato nel 2004, e scritto dallo stratega jihadista Abu Bakr Naji, è spiegata la strategia di Zarqawi: portare avanti una campagna di sabotaggi continui e costanti a siti turistici e centri economici di stati musulmani, per creare una rete di “regioni della violenza” in cui le forze statali si ritirassero sfinite dagli attacchi e in cui la popolazione locale si sottomettesse alle forze islamiste occupanti (e anche da questo comprendiamo bene che la lotta all’occupante amercicano c’entra sempre meno).
Come ha ben ricostruito Lawrence Wright il 16 giugno sul NewYorker (bastava che Di Battista andasse a leggere) Zarqawi sancì la sua vicinanza con alQaida chiamando il suo gruppo “AlQaida in Iraq” (AQI): nonostante la differenza di vedute, l’affiliazione garantiva vantaggi a entrambe le parti, per esempio permetteva a bin Laden di avere una forte presenza in Iraq, paese allora occupato dalle forze americane. Nel frattempo, nel 2006, Zarqawi era stato ucciso da una bomba americana, e il suo posto era stato preso da Abu Omar al-Baghdadi (ucciso poi nel 2010, e il suo posto fu a sua volta preso da Abu Bakr al-Baghdadi). Nell’aprile del 2013 AQI cambiò il suo nome in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS), dopo che la guerra in Siria gli diede nuove possibilità di espansione anche in territorio siriano.
La brutalità dell’ISIS era già stata notata da alQaida nella guerra in Siria: dalla fine del 2013 il capo di alQaida, Zawahiri, cominciò a chiedere all’ISIS di rimanere fuori dalla guerra (in Siria alQaida era già “rappresentata” dal gruppo Jabhat al-Nusra). Al-Baghdadi però si rifiutò e nel febbraio del 2014 Zawahiri “espulse” l’ISIS da alQaida («Fu la prima volta che un leader di un gruppo affiliato ad alQaida disubbidiva pubblicamente», ha detto un esponente qaedista). IL’ISIS si era dimostrata troppo violenta anche per alQaida, soprattutto perché prendeva di mira non solo le truppe di Assad ma anche altri gruppi dello schieramento dei ribelli sunniti. Alla fine del 2013 l’ISIS, rafforzato dalle vittorie militari in Siria, tornò in Iraq e conquistò le città di Falluja e Ramadi.
Nel suo articolo poi Di Battista afferma un’altra cosa tanto falsa quanto “buona per tutte le stagioni”: che a finanziare e armare ISIS sia o siano stati gli USA. Per una delle rare volte anche questa è una clamorosa falsità.
La storia militare finanziaria di ISIS è ben diversa. Dapprima finanziata secondo le logiche qaidiste (raccolte fondi internazionali e dotazione iniziale di armi e persone da AlQaida), Isis si finanzia autonomamente con i traffici illegali della zona di Mosul, con le tangenti per i passaggi dei convogli nel Kurdistan, e con la vendita di petrolio e di energia elettrica proveniente dai pozzi e dalle centrali elettriche conquistati nel nord della Siria e dell’Iraq. A queste fonti si sono aggiunte le “razzie” e le “imposte” nei territori che attualmente “controlla” come fosse uno Stato nello Stato.
In particolare Max Fisher già il 12 giugno su Vox ha descritto con una inchiesta specifica come Isis si finanzi sfruttando l’economia di guerra siriana
Veniamo ora al capitolo su chi arma ISIS e da dove vengono le sue armi.
La maggior parte degli armamenti proviene dai saccheggi dei depositi delle forze militari irachene. Sono prevalentemente armamenti: mitra AK47, e anticarro e antiaerea leggera montati su fuoristrada a leggera blindatura, prevalentemente artigianale. Le munizioni e i mitragliatori sono i nuovi rifornimenti ricevuti la cui origine è un vero e proprio baratto in cambio di petrolio con trafficanti “indipendenti” prevalentemente arabi e russi, e dallo scambio di transito ed energia elettrica con l’esercito di liberazione siriano. Un ultimo pericolo nasce dall’ultima “conquista” (9 luglio): una fabbrica d’armi chimiche in disuso nel distretto di Mosul nei cui bunker ci sarebbero ancora materiali utili per costruire armamenti “sporchi”. Sempre negli attacchi recenti sarebbero riusciti a impadronirsi di otto carri armati leggeri dell’esercito iracheno, che usano prevalentemente per video di propaganda non avendone munizioni e pezzi di ricambio.
Le sue forze complessive sono stimate in 6-8000 uomini, meglio pagati di tutti gli eserciti dell’area, il che rende l’arruolamento nell’Isis quasi un privilegio grazie al quale è possibile che un solo miliziano riesca a sfamare anche dieci membri della sua famiglia, oltre a garantirne la protezione.
Cosa ha a che fare tutto questo con presunti eserciti di liberazione, con movimenti autonomisti o indipendentisti resta un mistero.
Ma il culmine arriva nella parte finale dell’articolo di Di Battista, quando afferma:
Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. E’ triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore. Compito difficile ma necessario, altrimenti non si farà altro che far crescere il fenomeno.
Proviamo a mettere ordine. Qui non stiamo parlando di “un gruppo che si ribella”, ma di un esercito pagato e messo in piedi circa quindici anni fa per destabilizzare aree geopolitiche di per sé incandescenti, da parte di un pazzo sanguinario definito tale anche da AlQaida. Un personaggio che usa come strumento di controllo del territorio il terrore, portato al massimo grado di ferocia e spietatezza, per farsi temere e riconoscere come unica forza da subire.
Qui non si tratta di villaggi bombardati da droni. Non ci sono innocenti da difendere. Anzi, l’esatto contrario, qui si parla di una milizia militare che terrorizza per ottenere il controllo e conquistare territori da cui svendere le risorse per finanziare la propria guerra per il ritorno al califfato.
Pensare di porre la questione sul piano politico e poter anche solo immaginare di considerare “interlocutore” chi non vuole interloquire ma solo conquistare e sterminare è un errore storico, culturale e soprattutto politico. E lo è di più se a fare questo errore è un politico, che diffondendo queste teorie rischia di legittimare qualcuno o qualcosa.
Vorrei che Di Battista mi spiegasse, ad esempio, anche qualora il suo villaggio venisse bombardato da un drone, che colpa ne avrebbero i tanti pendolari che poi lui farebbe esplodere, per esempio a Madrid, come a New York visto che lui ha “una sola strada per difendermi …caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana.” in che consisterebbe questa sua “azione di difesa”? Che difesa legittima è la vigliaccheria di farsi esplodere in una metropolitana…? Poi, dopo, vorrei che le stesse cose le spiegasse ai familiari delle vittime.
A Di Battista andrebbe spiegato che elevare un terrorista – non un indipendentista, un autonomista, uno che lotta per il suo popolo – ma un TERRORISTA a “interlocutore politico”, significa dire al mondo che chiunque voglia diventare un interlocutore della comunità internazionale ha una via semplice: creare un piccolo esercito e scannare bambini per strada.
Ed ecco perché il mondo non ha bisogno di uno sciacallo come Di Battista che per far parlare di sé nel caldo estivo spara le sue fantasiose teorie e ricostruzioni storiche e geopolitiche prive di fondamento. Sempre, e come sempre, sulla pelle degli ultimi.