La questione delle persecuzioni dei cristiani in Medio Oriente ha suscitato in Italia un polverone di reazioni sparse, farcite di revanscismo crociato, vittimismo paleocristiano, piagnisteo italico e pura ignoranza. Nessuno dei tanti paladini della giusta fede ha avuto la minima capacità di un’analisi storica del processo che oggi porta alla ribalta i fanatici assassini dell’ISIL. Pare che sia scomparso dalla memoria degli italiani il dato che l’Occidente, e quindi la Cristianità, ha recentemente condotto nella regione due guerre scellerate che hanno sconvolto il suo precario equilibrio, dando fuoco a una polveriera che covava da tempo, sempre per colpa occidentale, dallo stretto di Ormuz a quello di Gibilterra.Proprio nell’anno in cui si celebra il centenario della Prima Guerra Mondiale nessuno ricorda che dobbiamo alle sue mai risolte conseguenze la perenne instabilità del mondo arabo. Anche qui, come in Europa, tutto si riconduce alla costruzione politica dello stato nazionale, un modello di statalità nato in Europa e funzionale al sistema economico capitalista, ma da noi esportato in aree del mondo dove, per le condizioni economiche e sociali completamente diverse e per la mancanza di un sentimento nazionale, non poteva attecchire.
In Europa il crollo dell’impero austro-ungarico si consuma all’apice di un processo di costruzione identitaria nato attorno ai fulcri economici delle nuove borghesie industriali. Se sbriciola il continente in decine di piccole comunità nazionali alla lunga insostenibili, rende al tempo stesso inesorabile a termine una sua ricomposizione. La pagheremo cara, al prezzo di due guerre mondiali, dell’Olocausto e della dittatura comunista. Ma se non altro siamo stati noi stessi i responsabili e gli esecutori della nostra rovina, da cui comunque siamo risorti con la costruzione europea. Oggi l’Europa sta infatti laboriosamente ricostruendo quella civiltà cosmopolita e senza frontiere, di diversità culturale, linguistica e religiosa che era stata la culla della sua forza politica e che ha assurdamente disperso sostituendo all’artificio dell’impero multinazionale un altro artificio: quello delle costruzioni nazionali.
Completamente diverse furono le conseguenze del crollo dell’impero ottomano. Nei vasti territori che i turchi dominavano dalla penisola arabica al Maghreb non esisteva nulla di paragonabile alle nostre identità nazionali. Un sistema di potere spesso tribale, di volatili regni o di potentati semi nomadi fungeva da debole volano del potere del sultano nelle provincie. L’unica forma di identità era religiosa, ma senza avere il carattere esclusivo delle identità nazionali europee. E soprattutto, senza una territorialità specifica perché, come ogni religione, l’Islam si rivolge all’umanità intera. Le varie comunità mescolatesi nella regione della mezzaluna fertile a seguito di migrazioni e invasioni vivevano senza confini certi in grande autonomia da Istanbul. Quando con il trattato segreto di Sykes-Picot le potenze vincitrici si spartiscono questi territori eterogenei, non badano alle frontiere comunitarie, non ne trovano fra le masse arabe, curde, armene, caldee, siriache, turcomanne che esse percepiscono tutte uguali. E sommariamente tracciano linee di dominio sulla sabbia del deserto badando unicamente a spartirsi il bottino in base alle loro sfere di influenza. Una spartizione analizzata a fondo dallo storico inglese James Barr nel suo saggio “A line in the sand” recentemente uscito nel Regno Unito presso le edizioni Scottish Power Foundation Studio. Così nascono i protettorati inglesi e francesi sugli odierni Iraq, Siria e Giordania, che già mettono pericolosamente insieme sciiti e sunniti, nemici giurati in una guerra religiosa che dura da secoli. E che a lungo dopo la fine della guerra impediscono agli arabi di governarsi da soli, usando i loro territori come avamposti sullo scacchiere degli imperi coloniali europei.
Su questa spartizione arbitraria viene poi a innestarsi la questione sionista, con l’immigrazione ebraica degli anni ’20 e ’30 e infine l’attribuzione allo stato di Israele nel 1948 di un territorio a dir poco insostenibile, ritagliato secondo antichi dettami biblici ma senza nessun riguardo per le locali comunità arabe che vengono isolate l’una dall’altra e sistematicamente espropriate. Non dimentichiamo, per inciso, che l’identità nazionale palestinese non esisteva e non è mai esistita prima del 1948. È stata la presenza israeliana a suscitarla. In questo quadro di assoluta prevaricazione straniera, alla fine della Seconda Guerra Mondiale le solite potenze vincitrici insediano dinastie di despoti da loro mantenuti nei nuovi paesi fintamente indipendenti che per decenni dilapidano risorse, opprimono e torturano le loro popolazioni e ne bloccano ogni sviluppo sociale, ogni progresso economico che non sia per i membri della cosca al potere. L’imposizione di un sistema economico di puro saccheggio che risucchia ogni risorsa verso l’Occidente senza creare in loco un’economia sostenibile vota questi regimi fantoccio a un fallimento che la guerra fra i Blocchi ritarderà di qualche decennio.
Intanto l’introduzione di valori occidentali avulsi da una parallela evoluzione in senso laico e e moderno della società, unita al discredito dei valori tradizionali trattati come antistorici dall’élite filo occidentale portano a una progressiva estraniazione culturale di queste popolazioni che generazione dopo generazione si sentono sempre più perdenti. Il seguito lo sappiamo. La rivoluzione khomeinista in Iran e’ solo il preambolo di quel che verrà dopo. Le guerre irachene e le rivoluzioni nordafricane hanno dato la stura a processi incontrollabili dove non c’è ricambio democratico per gli antichi despoti o è solo apparenza, di nuovo imposta dall’esterno, come in Iraq. Diviene così comprensibile lo smarrimento di popolazioni prese in ostaggio dalla storia, che nella disperata ricerca di un punto di riferimento, sono pronte a tornare anche alla più oscura tradizione religiosa pur di ritrovare un senso di appartenenza. E nel riscatto che cercano contro l’Occidente devastatore, quale più potente simbolo del Cristianesimo da prendere di mira? Quella croce oggi non rappresenta più per le masse arabe la religione sorella con cui hanno convissuto per secoli, del resto assieme ad altre, ma viene identificata con lo straniero aggressore e protettore di tiranni. Ecco spiegato il folgorante successo dell’ISIL in Siria e in Iraq, sulle ceneri di due regimi morenti.
Compiangere i cristiani scacciati dalle loro case o trucidati dalle milizie oggi serve a poco ed è anzi profondamente ipocrita. Ancora di più per un paese come il nostro, che si è sempre disinteressato dei propri vicini mediterranei, quando non ha partecipato anche lui al loro saccheggio, per interposte società petrolifere. Quanto al buon Papa Francesco, prima di pregare per loro, non dovrebbe dimenticare i secoli di ostilità della chiesa di Roma contro le chiese mediorientali, il totale disinteresse per un mondo cristiano straccione e sospetto di sincretismo, che chiama Dio col nome di Allah, che spesso neppure riconosce l’autorità papale e non porta né influenza, né ricchezza. Dal canto loro, le gerarchie delle chiese mediorientali vivono da secoli anchilosate nelle loro enclave, più preoccupate di conservare devoti e tenere un piede infilato in qualche salotto vaticano che rivolte ai problemi della società in cui operano. La situazione mediorientale è ormai fuori controllo, con buona pace delle nostrane ranocchie da acquasantiera. Molto probabilmente, i cristiani mediorientali saranno sempre più vittime di epurazioni etniche e persecuzioni che potrebbero portare alla loro scomparsa da Iraq e Siria. Si spegnerà così l’ultimo fiato di quella varietà culturale che un tempo era la caratteristica del Levante, nostro specchio e nostro sbocco che le angustie nazionali ci hanno fatto dimenticare e dove noi italiani non siamo mai riusciti ad avere un ruolo oltre il pittoresco Dodecanneso.
Così a Roma ci si batte il petto per i poveri fratelli cristiani d’Oriente ma nessuno da più di un secolo ha mai fatto nulla per sostenere in questa regione lo sviluppo di un senso di comunità, un germe di stato, un’economia sostenibile. Anche la Chiesa si è sempre accontentata di assecondare gli interessi dei potenti. Ecco allora che i piagnistei romani assumono subito il sapore dell’ipocrisia e vanno forse annoverati fra le azioni di quell’altra subdola guerra, questa di propaganda, che la chiesa romana conduce su tutti i fronti, dai picchetti antiabortisti davanti agli ospedali, all’opposizione alla legge sulla fecondazione eterologa e artificiale in genere, al veto sull’eutanasia per i malati terminali. Subdole e poco eclatanti forme di persecuzione che però nessuno apertamente condanna e che non fanno i titoli dei giornali ma lasciano ferite aperte in una società sempre più smarrita.