“C’è un certo genere e un certo grado dell’intelletto sul quale le parole fanno presa, ma in cui le cose non hanno il potere di penetrare. Un talento mediocre, con una costituzione morale un po’ fiacca, è il suolo che produce i più brillanti esemplari di scrittori di saggi premiati”.
William Hazlitt, Sull’ignoranza delle persone colte
Iniziamo da questo numero una nuova rubrica, “L’ignoranza delle persone colte”, dal titolo di uno dei più celebri saggi di William Hazlitt, il Montaigne inglese. Per il grande poeta inglese John Keats, non più di tre erano le “cose di cui godere” nella vita. Una di queste era “la profondità del gusto” di William Hazlitt. Secondo Hazlitt, se la vita è gioia, felicità ma allo stesso tempo crudeltà insensata, ignoranza, se è spavento e orrore, se è volgarità e presunzione, non c’è altro da opporre che l’eleganza e la forza di uno spirito libero. In questa rubrica, che non avrà cadenza fissa, non faremo recensioni di libri, ma ci faremo ispirare da essi.
La prima ispirazione la prendiamo dal libro dello scrittore casertano Francesco Piccolo, Il desiderio di essere come tutti, vincitore del premio Strega 2014. Non ci sono motivi particolari per scegliere questo libro piuttosto che un altro. Il libro di Piccolo ci è venuto in mente leggendo le parole pronunciate da papa Francesco durante una sua visita pastorale a Caserta. “È terribile, lo sfregio di questa bella terra,” ha detto il papa sorvolando in elicottero la cosiddetta “terra dei fuochi”. “Bisogna avere il coraggio di dire no a ogni forma di corruzione e di illegalità”. I protagonisti del libro di Piccolo sono Caserta e il segretario del Partito Comunista Italiano negli anni settanta e ottanta, Enrico Berlinguer, ma l’autore non fa nessun accenno ai fatti citati da papa Francesco e alle persone che ne sono responsabili. “L’abitudine è quella di sentirsi estranei agli errori, estranei alle brutture del Paese. L’estraneità rende impermeabile la conoscenza, e senza conoscere le ragioni degli altri, non si può combatterle,” dice Piccolo a conclusione del suo libro. Certo, anche a noi come a papa Francesco piacerebbe conoscere “le ragioni degli altri” di Caserta, ma se è questo che vi aspettate dalla lettura di questo libro, Il desiderio di essere come tutti non fa per voi.
A differenza di alcuni nostri amici che avevano lodato, forse troppo, i racconti di Storie di primogeniti e figli unici e Momenti di trascurabile felicità per la loro scrittura ironica e sincera, avvolgente e a cerchi concentrici, che rispecchiava bene la sua generazione, e poi hanno ammirato il maschio seduttore de La separazione del maschio – egocentrico, autoreferenziale, continuamente a caccia di consensi (soprattutto sessuali), anche se il protagonista usciva fuori alla fin fine come uno cieco di fronte alle cose della vita –, a noi il libro vincitore dello Strega è piaciuto più di altri, non tanto per la scrittura, che nonostante rimanga sempre tesa e tenga incollati alla pagina, scivola verso un’elegante prosa giornalistica, povera di grandi illuminazioni, ma soprattutto perché è un libro che ci fa riflettere su un periodo della nostra storia – soprattutto quello degli anni settanta e ottanta – in modi nuovi e anche originali.
La domanda che sembra essere al centro del libro è la seguente: ma Berlinguer era un perdente o un vincente? D’altra parte il tema di chi vince e chi perde viene reiterato continuamente nel corso del libro. Ci sono pagine e pagine sulle partite di tennis tra il protagonista del libro, Francesco Piccolo, e un suo amico democristiano, nipote del sindaco. “Perché la sconfitta non mette in gioco la quantità di problemi che mette in gioco la vittoria. È come se fossimo in un gigantesco spogliatoio, dopo la partita, e noi che abbiamo perso ci guardassimo tutti con soddisfazione, perché sappiamo di giocare meglio, in modo più elegante; gli avversari hanno vinto, ma sudano troppo”, commenta a un certo punto l’autore.
Sul punto se Berlinguer fosse un perdente o un vincente si interroga continuamente Piccolo. Le sue risposte sono apparentemente contradditorie. “Berlinguer lascia in eredità l’etica politica – un elemento necessario; ma non si affianca più alla strategia politica, bensì la sostituisce”. Ma poco dopo, Piccolo aggiunge: “La risposta quindi, se Berlinguer avesse una propensione alla sconfitta, è un no deciso”.
Pochi oggi ricordano che il primo grande sponsor delle politiche di austerity in Europa è stato proprio Enrico Berlinguer. Se uno andasse a rileggere i punti salienti del celebre “discorso dell’austerità” fatto da Berlinguer al Teatro Eliseo nel 1977, poco prima che il “compromesso storico” tra la Democrazia Cristiana e il Partito Comunista Italiano si concretizzasse, vi noterebbe molte assonanze con i ragionamenti che fa da alcuni anni la cancelliera tedesca Angela Merkel. Secondo Berlinguer, il paese che era stato sempre governato dal 1948 in poi dalla Democrazia Cristiana era troppo spendaccione. Cosa avrebbe voluto Berlinguer? Un paese austero, appunto, che fosse “incline al passo giudizioso, non sperperante. Austero, appunto”, come nota Piccolo. Difficile non fare l’associazione con il celeberrimo “passo dopo passo” della cancelliera. I governi guidati dalla DC spendevano troppo, secondo Berlinguer, dimenticando che in quella spesa c’erano poste come l’educazione, in quote percentuali del Pil nettamente superiori a quella di oggi, e questo non era un essere semplicemente spendaccioni.
D’altra parte, gli economisti del PCI non amavano molto John Maynard Keynes, a cui preferivano le teorie di Karl Marx. Forse non è un caso se ancora oggi, all’interno del governo di Matteo Renzi, ci siano ministri che all’epoca avevano sposato le tesi di Berlinguer; o se ancora oggi abbiamo un Presidente della Repubblica che all’epoca era nella fase eurocomunista di austerità ante litteram, dopo aver superato la fase fascista da studente negli anni quaranta, quella comunista filosovietica degli anni cinquanta – “L’intervento sovietico è stato il contributo decisivo non solo per impedire che l’Ungheria finisse nel caos e nella controrivoluzione, e difendendo gli interessi militari e strategici dell’URSS, ma anche salvando la pace nel mondo” – e quella anti-intellettuale degli anni sessanta – “Solo commentatori sciocchi e faziosi possono evocare lo spettro dello stalinismo, trascurando il modo in cui Solzhenitsyn ha portato le cose a un punto di rottura”.
Francesco Piccolo, come spiritosamente racconta, diventò comunista e si innamorò di Berlinguer durante la partita tra Germania Ovest e Germania Est ai mondiali di calcio del 1974. Lui faceva il tifo per i poverini della Germania Est che indossavano tute sportive non all’altezza dell’eleganza richiesta dall’evento. Fece il tifo per Berlinguer durante la fase del “compromesso storico” e in quella successiva, quando Berlinguer, ormai totalmente sconfitto – il nuovo alleato della Democrazia Cristiana era ormai Bettino Craxi – lanciò nel 1980 la linea politica di “alternativa democratica”, cioè di dura opposizione alla Democrazia Cristiana. “Così, dalla sera alla mattina”, come scrive Piccolo, “decise di cambiare rotta per sempre: il Partito Comunista Italiano ritirava ogni intenzione di rapporto politico con la Democrazia Cristiana e con il Partito Socialista, sceglieva l’opposizione come collocazione stabile, in autonomia (in isolamento, per meglio dire). La decisione fu così repentina che molti dei dirigenti furono svegliati nel mezzo della notte, e alcuni altri, addirittura lo lessero la mattina dopo sulle pagine dell’Unità”.
Scelta che gettò nello sconcerto tutto un ceto intellettuale di sinistra (sceneggiatori, politici, critici, produttori, giornalisti) che da allora in poi rimase scontento di tutto: della vita pubblica, di quella professionale e di quella privata, “che ha perduto prospettive e tensione morale. È un gruppo che si sente postumo, come se avesse mancato qualcosa”. Accidenti, se aveva mancato qualcosa! Alla presidenza della Rai sarebbe arrivato qualche anno più tardi il professore emerito di letteratura Walter Pedullà, e non il comunista Alberto Asor Rosa, colui che aveva sviluppato con grande impegno la tesi che la “letteratura impegnata” fosse soltanto una pura illusione populista, poiché la classe operaia non avrebbe mai potuto sperare di beneficiare delle arti e delle lettere in un mondo capitalista in cui la cultura era, per definizione, irrimediabilmente borghese (Asor Rosa, come Piccolo, è di origine piccolo borghese). Come se non bastasse, Pedullà, il critico letterario dell’odiato quotidiano socialista l’Avanti, cominciò a collezionare una serie impressionante di premi (il Vittorini, il Borghese, il Giusti, il Locri, il Melfi, l’Adelphi, il Regium Julii, il Sidereo, il Cortina, il Montesilvano tra i più noti e autorevoli) ed entrò a far parte di tutte le giurie letterarie d’Italia (Strega, Viareggio, Campiello, Mondello, Scanno, Pen Club, Flaiano, Bari nonché Penna, Pisa, Acquileia, Coni, Latina, Orient-Express, Trulli, Crotone, Vibo, Padula, Sidereo, Cortina, Montesilvano) con una capacità di lettura straordinaria. La leggenda racconta che per poter leggere tutti i libri dei premi a cui partecipava, facendosi aiutare dal figlio, fosse in grado di leggere cento libri al giorno.
Anche per Piccolo, come per milioni di altri comunisti, il vangelo, dopo la svolta clamorosa del 1980, divenne la celebre intervista rilasciata da Berlinguer al direttore del quotidiano la Repubblica del 28 luglio 1981 che iniziava con il celebre attacco “I partiti non fanno più politica” e in cui Berlinguer poneva in modo forte e autorevole la questione morale al centro della vita del paese. In verità era il PCI che non era più in grado di fare nessuna politica che avesse uno sbocco concreto. Berlinguer invitava tutti a guardare il mondo dall’alto. Il PCI era il giusto sentiero, senza nei e senza macchie. Non si capiva più perché Berlinguer avesse voluto, solo alcuni anni prima, sporcarsi le mani addirittura con i corrotti politici della Democrazia Cristiana, politici che peraltro erano, per quanto riguardava la spesa pubblica, dei grandi spendaccioni.
Una domanda che Eugenio Scalfari non pose a Berlinguer fu la seguente: ma non dimostrò il PCI durante il rapimento Moro di essere poco lucido? Cosa ci avrebbe rimesso Berlinguer se Moro fosse stato liberato? Veramente credeva che un piccolo gruppo come le Brigate Rosse potesse rappresentare una oggettiva minaccia per la democrazia italiana e che si sarebbero rafforzate dal rilascio di un pugno di membri che sarebbero stati sotto stretta sorveglianza da parte della polizia nel momento in cui fossero usciti dal carcere? Come ben ricorda Piccolo, “la decisione di chiusura totale alla trattativa l’aveva presa Enrico Berlinguer”.
Come scrive lo storico britannico di orientamento marxista Perry Anderson, a lungo direttore della New Left Review, uno che certamente non può essere accusato di essere un anticomunista:
La tesi che il prestigio dello stato non sarebbe sopravvissuto ad una resa tale, o che migliaia di altri terroristi sarebbero spuntati fuori sulla scorta di quei fatti, non fu nient’altro che isteria instillata in maniera interessata. I socialisti lo capirono e si schierarono a favore delle trattative. Plus royalistes que le roi, i comunisti, ansiosi di dimostrarsi tra i più saldi bastioni dello stato, sacrificarono una vita e salvarono dal tracollo la loro nemesi, la DC… Durante questa crisi, una volta di più il PCI dimostrò di essere privo di umanità e buonsenso e denunciò qualunque trattativa per assicurarsi il rilascio di Moro in maniera più veemente di quanto facesse la stessa dirigenza della DC, che era comprensibilmente spaccata. Moro fu puntualmente abbandonato al suo destino. Se gli fosse stato permesso di vivere, il suo ritorno avrebbe sicuramente diviso la Democrazia Cristiana e avrebbe probabilmente posto un termine alla carriera di Andreotti.
Concludiamo con una citazione nella citazione di Goffredo Parise, che negli anni settanta, come ricorda Piccolo, teneva una rubrica di dialogo con i lettori sul Corriere della Sera: “Questo mio Paese è l’Italia molto bella dei più, non il meschinissimo Paese dei meno: quello dei meno è un Paese dove non si nasce, non si mangia, non si ama, non si vive e non si fa nessuna cultura. Dove non si respira nemmeno l’aria, perché prima bisogna ‘fiutare le arie che tirano’ e solo dopo si respira. Questo non è il mio Paese: il mio Paese è l’Italia piena di calore animale, quella ignorata dai poveri snob, dove mi piace vivere e scrivere”.